Il mercato “sostenibile” e la tecnocratizzazione dell’etica. Un’illusione per non cambiare

Sono tempi difficili, di grande smarrimento. Di fronte all’incertezza pandemica, aggiuntasi alle recenti crisi economiche, è ormai a tutti chiaro che il mercato, da solo, non ci salverà, e occorre trovare il modo di includere l’interesse generale nelle scelte produttive e distributive.

Dal dopoguerra agli anni 80 questo fu il compito degli stati. Poi ci si è convinti che le imprese, con uno stato leggero, sarebbero state più efficienti. Abbiamo così vissuto i trent’anni più diseguali degli ultimi ottanta, come ha mostrato Piketty, nascosto sotto al tappeto i problemi ambientali, sprecando mezzo secolo dal rapporto del Club di Roma; deregolamentato i mercati, formato male studenti e classi dirigenti, orientato in senso neoliberista tutti i settori chiave dell’Europa. 

Invece di riconoscere l’errore politico, l’Unione europea chiede ora alle imprese di internalizzare nella funzione obiettivo l’onere del cambiamento, mantenendo in piedi il traballante edificio marginalista: così ecco direttive, standard e consultazioni sulla finanza sostenibile, i fattori ESG, la rendicontazione non finanziaria. Le imprese devono illustrare aspetti sociali e ambientali della propria attività. Le banche ne devono tenere conto nelle valutazione di investimento. 

Secondo le aspettative dei policy maker, tra poco, tutto il mercato potrà definirsi sostenibile (più etico, dunque). Credibile? No, perché i dati vanno interpretati, sintetizzati, orientati rispetto ad un sistema di valori. Non basta raccoglierli, ma contestualizzarli. Se un’impresa licenzia 1.000 senior e assume 1.100 junior, ha un incremento occupazionale di 100, riduce i costi e aumenta i profitti (nel breve). Ma il suo impatto sulla società è così chiaramente positivo? Chi è in grado di tradurlo, a partire dai numeri? Sulla base di quali criteri? 

Corriamo anche il rischio che l’approccio normativo penalizzi proprio le imprese più etiche (quelle convintamente tali, non per diritto), diluendo quel plus che consumatori e investitori finora hanno riconosciuto, insomma favorendo una improvvida “notte nera delle vacche nere”, per dirla con Hegel. 

Si dovrebbe allora tornare al pensiero illuminista, che pure è alla radice della casa comune europea. Ha scritto Natalino Irti: “Le regole di diritto non ‘eticizzano’, ma piuttosto ‘giuridizzano'”. Insomma, abbiamo avviato un intenso processo di tecnocratizzazione dell’etica, e la sostenibilità è diventata materia da compliance officer, generando un paradosso concettuale: se è legge, non posso non farlo; se non posso non farlo, non è etica; se non è etica, non modifica la cultura delle persone e delle organizzazioni. Ergo, non sposta i comportamenti.

È nel riequilibrio dei rapporti tra stato e mercato che va affrontata l’intera partita di una maggiore giustizia sociale, anche in senso intergenerazionale. Per affrontare le grandi questioni del tempo (dalle diseguaglianze alla crisi ambientale), l’etica d’impresa serve a poco, servono piuttosto politiche pubbliche e stati forti. E invece sì, per avere un migliore sistema imprenditoriale e un’evoluta cultura manageriale ha senso fare leva sull’etica. 

Riscoprendo uno degli ispiratori del disegno europeo, Immanuel Kant. È da “una buona costituzione dello stato… che c’è da aspettarsi la buona educazione morale del popolo”, mentre per aspirare ad “una vita indipendente dall’animalità” la principale risorsa va trovata nella “legge morale in me”.


pubblicato on line in AltrEconomia il 7 gennaio 2022.