Sale un urlo dalle periferie


Sale un urlo dalle periferie delle grandi città. Qualcuno se ne stupisce. La maggior parte della popolazione mondiale vive in aree urbane (54% del totale). Nel 1950, questo rapporto era rovesciato, con solo il 30% degli abitanti del globo “urbanizzati”. La previsione delle Nazioni Unite è che il 66% delle popolazione mondiale vivrà in centri urbani entro il 2050. 
 

Eppure le periferie e le politiche urbane sono fuori dall’agenda dei governi, locali e nazionali. Non da sempre, dal 2007. Anno fino al quale, seppur tra difficoltà realizzative ed errori fisiologici, in Italia e in Europa molto si è tentato per rendere le periferie delle grandi città uno spazio di opportunità e non una discarica di disagio sociale, micro-comunità al centro di grandi aggregati, luoghi muniti di propri identità e capitale sociale piuttosto che nonluoghi.
Una vastissima rete di operatori nonprofit ed enti locali, coadiuvati da studiosi e associazioni di base, ha sperimentato e gestito nei 10-15 anni precedenti questo stupefacente periodo di oblio un’ampia gamma di tipologie di interventi. Dalla matrice prettamente urbanistica per la riqualificazione degli spazi a quella sociale per l’empowerment di giovani, donne, disoccupati, anziani, migranti. Dalla promozione di piccole nuove imprese che riattivino la creazione di occupazione alla riconversione ecologica di aree nate abusivamente o semplicemente non curate.
È la stagione dei Contratti di quartiere, avviati dal Ministero delle Infrastrutture nel 1998 con un primo programma e poi confermati nel 2002, definiti come esperimenti di recupero urbano da localizzare "in quartieri segnati da diffuso degrado delle costruzioni e dell'ambiente urbano e da carenze di servizi in un contesto di scarsa coesione sociale e di marcato disagio abitativo". La prima edizione del programma - la cui dotazione finanziaria iniziale è stata pari a 350 milioni di euro - ha coinvolto 57 comuni. Il secondo è stato meno preciso negli obiettivi e negli interventi ma caratterizzato da ancor più ingenti risorse (1.357 milioni di euro).
Spesso, nelle grandi città metropolitane, ai Contratti di quartiere si sono affiancati gli Interventi per lo sviluppo imprenditoriale in aree di degrado urbano previsti dall’articolo 14 della legge 266/1997. Anche in questo caso si parla di risorse significative, pari ad oltre 200 milioni di euro trasferiti dallo Stato alle dieci principali città del Paese, cui si sono aggiunti in diversi casi stanziamenti comunali e regionali.
Sono nati così incubatori di impresa, centri di servizio per l’avvio di start-up, progetti sperimentali per l’animazione economica, di cui hanno beneficiato quasi 10 mila microimprese, più della metà promosse da giovani. Il tutto in una cornice logica che oggi appare smarrita e che vede la qualità sociale dei territori intimamente collegata alla capacità endogena di creare sviluppo e ricchezza, di esprimere autonomia progettuale e intraprendenza economica, di sentirsi artefici del proprio destino. Non a caso questi interventi venivano spesso arricchiti col metodo della partecipazione, coinvolgendo gli abitanti nel discutere i problemi, individuare le soluzioni, progettarle e (a volte) realizzarle insieme. Sembra un’utopia di un’altra epoca storica. Eppure sono passati solo 8 anni da quando la Commissione europea assegnò ad uno di questi programmi, quello di Roma, il premio come migliore pratica per la promozione di imprese sostenibili nel continente. Tutto questo oggi non c’è più. Cos’è cambiato di così profondo?
L’austerity, certo. Una crisi che ha brutalizzata la capacità di visione della politica. E una società sempre più ripiegata su stessa, che non riesce ad alzare lo sguardo. Ma che ancora può accorgersi del buco nero in cui si è infilata. Un’occasione è offerta proprio dall’urlo che sale dalle periferie. Un urlo sguaiato, a volte strumentalizzato, cinico, furbo, sovente disperato. Un urlo che parla di realtà e di una politica che ha dimenticato come affrontarla.

di Alessandro Messina
per VITA, dicembre 2014