I numeri del nonprofit

Diciamolo subito: l’effetto è, almeno in parte, rinfrancante. A dicembre l’ISTAT ha pubblicato i risultati del primo censimento delle istituzioni nonprofit e finalmente si può fare chiarezza su alcuni luoghi comuni degli ultimi anni. Il terzo settore (ma avrebbe molto più senso parlare di terzi settori, vista l’eterogeneità descritta dai numeri) è ancora soprattutto fatto da piccole organizzazioni, basate largamente sul volontariato, attive nei campi della cultura, della ricreazione, dello sport.

 
L’immagine del terzo settore fatto dai “professionisti” è dunque parecchio ridimensionata. Eppure questo Terzo Settore con le maiuscole esiste, si sente forte e si arroga una rappresentanza che non ha, composto come è da quel 4-5% di organismi raggruppati nel Forum: i più ricchi, i più grandi, i più pesanti in termini politici. 
L’ISTAT scopre le carte e rivela uno dei grandi bluff di questo mondo: solo il 10% delle istituzioni nonprofit gode dei benefici economici che il Forum ha rivendicato negli ultimi anni, facendo del terzo settore uno dei comparti in cui la concentrazione della ricchezza è da Stato Libero di Bananas. Una concentrazione che, è bene notarlo, è poi soprattutto riferita a tre settori di attività: istruzione e ricerca (scuole e università private soprattutto), la sanità (il segmento principale, con 92.210 dipendenti), l’assistenza sociale. Solo il 15% delle organizzazioni ha almeno un dipendente, mentre il resto è tutto basato sul volontariato. 
La ricchezza sociale di questo mondo è dunque di gran lunga superiore a quella economica. Eppure le piccole associazioni, le cooperative del commercio equo o della finanza etica, pur costituendo il 90% del totale, tendono a scomparire dal dibattito perché fuori dal cartello dei big. Sono gli effetti perversi di un sistema di relazioni e di rapporti organizzativi, quello delle grandi istituzioni nonprofit, che si è ormai totalmente allontanato da una visione alternativa dei modelli di sviluppo, che ha perso ogni radicalità, preso com'è dall'inseguire l'efficienza, la crescita dimensionale, la negoziazione politica o confindustriale. 
I dati dell’ISTAT danno molte indicazioni preziose, ma una fondamentale. E' necessario ritrovare il senso e l'originalità delle iniziative, garantire autonomia e distacco dalle forze politiche, continuare a sperimentare pratiche realmente alternative. Il terzo settore può mantenere una sua terzietà tra stato e mercato se e solo se ritrova questa capacità e se saprà ringiovanire, ormai è chiaro, i propri apparati, le strutture, i dirigenti, soprattutto nelle grandi organizzazioni.

di Alessandro Messina
per Carta, Rubrica Affari Nostr, febbraio 2002