Meno euforici, a dire il vero, sono apparsi i contenuti emersi dalla discussione. Per chi, come noi, non è più purtroppo un novello della materia, la sontuosa sala di Palazzo Borgia ha infatti funzionato da macchina del tempo: sembrava di essere tornati al 2009, quando di impact investing si cominciava a discutere e ci si appassionava ad analizzarne prospettive e incertezze.
In questo strano “ritorno al passato”, bene ha fatto Mario Calderini, dunque, a dire che è finito il tempo dell’advocacy: dopo quasi tre lustri, la community professionale dell’impact finance cosa può ancora ragionevolmente aspettarsi dai policy makers? Il Pnrr italiano, osservato con questa lente, ben riflette la sconfitta di chiunque negli anni abbia provato ad accreditare la finanza d’impatto come nuova fondamentale strategia per ibridare risorse pubbliche e private. Quello che è il programma nazionale di investimenti più importante dal dopoguerra contiene una sola volta il termine “innovazione sociale” o “coprogettazione”, mai le parole “non profit”, “economia sociale”, “cooperative”. “Impatto” ricorre 130 volte, ma mai associato all’idea che le logiche di misurazione del ritorno finanziario possano dipendere anche dai risultati sociali e ambientali.
Poco importa se questo sembra un po’, ormai, l’uovo di colombo! Come ha detto Francesco Rullani: ma perché non si riesce ancora a legittimare un modello di Esco sociali? se le Esco hanno dimostrato la convenienza economica dell’impatto ambientale, aiutando lo sviluppo del mercato green, perché lo stesso non si può fare con i mercati sociali?
Non dimentichiamo, però, il peso che hanno avuto - nel green - gli incentivi pubblici. Semmai un giorno vedremo ingenti investimenti pubblici tesi a riconoscere come risultato finanziario la riduzione della dispersione scolastica o l’occupabilità femminile, ecco che non faticheranno a nascere Esco sociali, e conseguenti investitori “d’impatto”.
Ma non accadrà domani. Come ha spiegato Roberto Randazzo, preso atto che abbiamo un problema di regole e prassi amministrative, nel nostro settore pubblico, che tendenzialmente confliggono con ogni tentativo di innovazione nelle impostazioni di progettazione e valutazione degli investimenti pubblici, scordiamoci anche di continuare a perseguire il cambiamento legislativo, un obiettivo che poteva starci 10 anni fa.
Incoraggia, intanto, la crescente attenzione degli intermediari finanziari al tema (complice anche la pressione regolatoria). Però serve anche un salto in avanti di capacità e competenze di chi detiene i capitali, fondamentali per dare senso ad ogni ipotesi. Sentir dire, nel 2022, che il problema del Terzo settore è nelle capacità gestionali o che i bilanci delle imprese sociali non sono leggibili da un investitore, è piuttosto scoraggiante, perché rivela una scarsa conoscenza del settore e dei processi di transizione che sta affrontando. Assomiglia ad una tattica calcistica che ben conosce chi ha frequentato i campetti polverosi dell’oratorio: non so che dire, faccio solo un po’ di green e social washing, e quando mi chiedono di più…butto la palla in tribuna dicendo che è il pallone ad essere sgonfio!
Il Terzo settore ha i suoi limiti, non c’è dubbio. Come li ha la Pubblica amministrazione. Ma non ricordiamo tutta questa eccellenza manageriale nel resto dell’industria e della finanza privata, che qualche responsabilità l’avrà pure nella costante contrazione della ricchezza nel nostro Paese. Più proficuo cercare il meglio dove c’è, e ce n’è, in modo trasversale, in tutti i settori.
Allora, insieme cerchiamo di superare gli stereotipi, mettiamo in campo un po’ di onestà intellettuale, usciamo dagli slogan e dal facile marketing. Sperimentiamo! E chissà che poi, insieme, finanza e non profit, non si riesca finalmente a convincere anche qualcuno, a Roma, tra i palazzi Chigi e Koch, che esiste - ed è tutt’altro che impossibile da cogliere - il potenziale e il valore dell’investire in una logica d’impatto.