La riforma del terzo settore


Cosa si vuole dal terzo settore? che diventi un mercato privato del welfare? o che sia spazio di nuova e piena cittadinanza? Le mosse del Governo Renzi in materia sono oscillanti tra le due prospettive e, come per altre materie sensibili (si pensi al lavoro), non sempre le roboanti e illuminate dichiarazioni di intenti sembrano trovare coerenza nelle scelte effettive di policy.



Il disegno di legge delega in discussione alla Camera mentre si scrivono queste note (Atto Camera 2617, "Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell'impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale") contiene diversi contenuti positivi. Principalmente perché propone di affrontare in modo organico una materia, il nonprofit, che nelle sue diverse componenti è da almeno un paio di decenni in continua trasformazione senza che si sia affermata una visione strategica chiara e un conseguente e coerente assetto di rapporti istituzionali (con la pubblica amministrazione, il mercato, tra le stesse diverse componenti del mondo senza scopo di lucro).


Tra 2001 e 2011 ogni due posti perduti negli enti pubblici se ne è generato uno nel terzo settore, con una impressionante progressione dei lavori precari all’interno del nonprofit, passati da poco più del 20% della forza lavoro (nel 2001) al 55% di fine 2011. E una polarizzazione crescente, grazie alla quale il 5% delle organizzazioni detiene oggi l’82% del flusso di risorse economiche che arriva ogni anno al nonprofit. Si tratta di circa 15 mila organizzazioni che - per oltre il 60% - si concentrano su sanità, istruzione e assistenza sociale. È l’esternalizzazione - o privatizzazione - di una componente ormai importante del nostro welfare.


Parallelamente a questa “liberalizzazione” de facto di comparti tradizionalmente pubblici sono state messe a dura prova le principali potenzialità di innovazione sociale (e di crescita occupazionale “netta”): è infatti crollato l’associazionismo che si occupa di cultura, attività ricreative, ambiente (il 65% delle istituzioni nonprofit, il 59% dei volontari, il  7% dei lavoratori dipendenti), con un -25% di addetti per le associazioni riconosciute e un -20% per le non riconosciute. 


È in questo scenario che si colloca l’azione governativa. Il disegno di legge delega declina condivisibili princìpi ispiratori. Ma il diavolo è nei dettagli e saranno i decreti attuativi (se e quando la delega sarà approvata dal Parlamento) a definire la reale portata degli interventi, che possono modificare sostanzialmente il verso del nonprofit nazionale: riuscirà il Governo a aprire nuovi spazi di azione civica ed economica, a generare migliori connessioni tra attivismo sociale e auto-imprenditorialità, tenere insieme la zona grigia del mercato nonprofit e quella del profit sociale? Questa è la grande sfida. 


Intimamente collegata al discorso impresa sociale. Che rappresenta al momento il dossier più critico all’interno della delega: è infatti prevista la definizione di una soglia oltre la quale scatta l’obbligatorietà della forma di impresa sociale, con tutto ciò che ne consegue. Occorre essere certi che essa si applichi solo alle forme produttive e organizzative che hanno funzioni, dimensioni e interessi compatibili con una simile trasformazione, e certo non basta il riferimento contenuto oggi nel testo a “iniziativa economica privata, svolta senza finalità lucrative, diretta a realizzare in via principale la produzione o lo scambio di beni o servizi di utilità sociale o d’interesse generale…”. 

Il rischio è di costringere a virare verso la forma impresa soggetti associativi, che svolgono attività commerciale in via strumentale per il raggiungimento dei propri scopi istituzionali (l’ONG, l’associazione culturale e ambientale, ecc.).


Sarebbe il verso sbagliato per una riforma che promette di mettere ordine nel confuso puzzle normativo del terzo settore e di esaltarne le potenzialità positive.