La crisi del sistema bancario e le politiche per il credito. Contributo al RAPPORTO 2013 della campagna SBILANCIAMOCI!



Le difficoltà dell’industria bancaria italiana sono atipiche rispetto a quelle del panorama mondiale del settore. Da un lato c’è la particolarità di un modello di business che fino a pochi anni fa tutti consideravano “antico” e che ora – dopo la grande crisi dei subprime e della finanza virtuale – è considerato vincente. Si parla del modello tradizionale del fare banca in Italia, quello della cosiddetta “banca commerciale” o “di territorio”, o anche “di relazione”. È il modello, cioè, che ha consentito alle nostre banche di trovarsi poco esposte verso gli strumenti finanziari più rischiosi, con un attivo tendenzialmente più proporzionato rispetto alla leva degli impieghi, perciò ancora in grado di finanziare (poco e in modo eterogeneo) l’economia reale nonostante la grande crisi.




Oggi però chi esalta questo modello di “banca all’italiana” dimentica che si tratta dello stesso modello che in passato, anche recente, ha generato l’arretratezza delle logiche di gestione, l’inadeguatezza di significativi comparti aziendali, l’inefficienza delle procedure, la mancanza quasi generalizzata di concorrenza. In una parola la “burocratizzazione” del sistema bancario, ossia la sua assimilazione alle logiche della (peggiore) pubblica amministrazione. Il tema non è di secondaria importanza considerato che fino al 1992 le principali banche italiane erano pubbliche e che il processo di privatizzazione avviato allora ancora stenta a tradursi in un processo di reale liberalizzazione, cioè nella strutturazione di un effettivo mercato bancario.



La crisi finanziaria scoppiata nel 2007 non è stata una sorpresa. Chi seguiva con attenzione e senza pregiudizi (fuori da posizioni di conflitto di interessi) i mercati finanziari, da almeno un decennio denunciava i rischi di un sistema che è divenuto ogni giorno sempre più autoreferenziale e lontano dall’economia reale. Un sistema in cui è andato crescendo il disinteresse per la funzione primaria della finanza, quella di alimentare i processi di produzione di beni e servizi. Invece, la finanza ha preso un’altra strada, generando e alimentando solo se stessa, alla ricerca frenetica di profitti da reinvestire sempre e solo, ancora, in finanza. Una spirale mortale che ha fatto esplodere la crisi di paradigma produttivo odierna. Crisi che non è, si badi, attribuibile alla finanza, ma in cui la finanza ha svolto, come sempre, un formidabile ruolo di acceleratore.



E forse questo difficile momento storico può tradursi in una colossale opportunità di cambiamento nell’agenda delle priorità di policy makers e interi settori produttivi mondiali. Ma decisori e regolatori globali si stanno dedicando dal 2008 (quasi) solo alla revisione delle regole della finanza, per lo più sbagliandone l’indirizzo (da Basilea 3 all’Unione bancaria europea): i derivati non sono ancora regolamentati e le grandi banche multinazionali continuano a essere privilegiate rispetto alle piccole banche locali. Evidentemente dalla testa dei regulators non è ancora uscito quel “martello neoliberista” che fa vedere tutti i problemi a forma di chiodo. Come per tanti beni comuni la risposta alla dicotomia stato- mercato può essere nell’impresa cooperativa. Certamente così è per il bene pubblico “credito”.



Negli Usa, Obama ha messo le Credit Unions al centro delle politiche economiche. In Italia le banche cooperative hanno tenuto in piedi il sistema negli anni peggiori della crisi e continuano a rappresentare un modello solido e resiliente. Effettiva declinazione di “democrazia economica”, con conseguente e coerente impatto positivo sullo sviluppo dei territori, le banche cooperative meritano il sostegno dei cittadini e l’attenzione dei governi. Passa anche da qui il disegno di una nuova economia che sia in grado di affrontare la pesante eredità di questa crisi. 


di Alessandro Messina
in RAPPORTO SBILANCIAMOCI! 2013. Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente