Commento all’appello per “Una nuova finanza pubblica”

Ho letto con interesse e apprezzato l’appello lanciato da alcune importanti organizzazioni per una nuova finanza pubblica (lo trovate qui). Lo spirito dell’appello va senza dubbio condiviso, in questi tempi caratterizzati da un degrado senza precedenti dell’etica pubblica, che toglie prospettive e visione ad una politica che voglia essere al servizio della collettività. Serve alzare la testa e riprendere in mano la programmazione e la gestione della cosa pubblica, intesa come quell’insieme di istituzioni, beni e servizi - di proprietà diretta delle amministrazioni pubbliche - che producono utilità generale.

Ben vengano dunque iniziative come questa. Proprio per questa profonda vicinanza alle finalità della campagna, non posso non segnalare alcuni limiti che secondo me possono inficiarne l’efficacia o addirittura rivelarsi un pericoloso boomerang.

Mi riferisco in particolare al primo punto dell’appello, che, a proposito del debito pubblico, invoca “un’auditoria pubblica e partecipativa che valuti quali debiti sono illegittimi e quindi da non riconoscere”. 

La tesi affermata è dunque che il debito pubblico italiano - o una sua parte - sia “illegittimo”. Tesi forte, che mette in discussione le radici della nostra democrazia: il debito nasce dalle politiche attuate dai governi eletti democraticamente negli ultimi 40 anni (più o meno). Se il debito è illegittimo erano illegittime le scelte di chi ci governava, che dunque non era legittimato a stare lì.

Pochi oggi in Italia sono contenti della qualità della nostra democrazia. E forse pochi lo erano anche trent’anni fa; ma questo può giustificare una presa di posizione da “guerra civile”? da processo di liberazione dall’invasore? 

Per capire meglio sono andato ad approfondire le proposte sui siti delle diverse organizzazioni che promuovono l’appello. In particolare ho visto i materiali diffusi dal Centro nuovo modello di sviluppo (CNMS). Il quale ha prodotto un kit - molto ben fatto - per favorire la promozione della campagna e la sua diffusione, anche nelle scuole. Leggendolo, però, il disagio è aumentato. A quello che  provavo da “cittadino” che - nonostante tutto - si sente parte di una democrazia, si è aggiunto quello di chi con i  numeri  è abituato a lavorare. Lo stesso disagio cioè che provo ogni volta che leggo - sui media o sui rapporti di ricerca - statistiche artefatte al fine di sostenere una tesi precostituita. Purtroppo si tratta di un fenomeno crescente. E che proprio non vorrei ritrovare nei lavori di chi so avere un’idea alta dell’etica pubblica e del ruolo dell’informazione, anche “alternativa”.

Nei documenti prodotti dal CNMS - piccolo ma fondamentale think-tank del nostro paese - si gioca un po’ troppo disinvoltamente con i numeri dell’avanzo primario e della spesa per interessi.

Inducendo il lettore quasi a pensare che il nostro  debito nasca dagli interessi, piuttosto che il contrario! La spesa per interessi ha certamente contribuito ad aumentare il fabbisogno finanziario del settore pubblico, soprattutto nel decennio ’80, complice la particolare curva dei tassi che ci fu in quegli anni. Ma essa stessa è figlia, non causa, del nostro debito e del suo andamento, dunque delle politiche pubbliche che lo hanno generato. Si veda in proposito il bell’articolo di Luigi Cavallaro sul Manifesto del 29 settembre scorso.

Dopo tutto, chiunque può farsi un’idea direttamente. I dati sono disponibili qui.

Quello che i numeri mostrano in estrema sintesi è che: il debito pubblico è mostruoso (vero) ma la dimensione degli interessi, pur raggiungendo livelli di guardia, non ha mai assunto dimensioni patologiche, se non per colpa dello stesso debito. A meno di non voler inforcare le stesse lenti di chi ci vuole costringere alle “cure da cavallo”. Gli interessi passivi nel 2011 erano il 10% delle uscite dello stato, il 14% in aggregato tra 1990 e 2011 (ma è un calcolo rozzo, i valori andrebbero attualizzati), il 15% in media nello stesso ventennio. Non sono valori da default (perché di questo si sta parlando). Non lo sarebbero per un’azienda o per una famiglia, figuriamoci per uno stato.

Nel frattempo, per capirci, i consumi intermedi delle pubbliche amministrazioni nel 2011 hanno inciso per l’11%. La spesa per consumi finali per il 41% e quella per prestazioni sociali in denaro per il 38%. E’ poco? E’ tanto? Si può fare di meglio? Non c’è dubbio. E la campagna Sbilanciamoci ce lo ricorda ogni anno.

Ma parlare di “congelamento del debito” esaspera e  non risolve il problema. Perché in tempi di difficile ricostruzione di un progetto collettivo suona come una gratuita minaccia ai creditori. Una minaccia che colpirebbe per la gran parte soggetti italiani, tra cui imprese che hanno venduto servizi alla pubblica amministrazione e ne aspettano il pagamento (15%) oppure detentori di titoli pubblici come le famiglie (13%), le assicurazioni e le banche italiane (33%, buona parte delle quali sono piccole banche di territorio), la stessa Banca d’Italia (5%).

Certo, ci sono anche gli investitori internazionali: il 34% del nostro debito lo detengono - attraverso i titoli di Stato - soggetti stranieri (per più della metà in Francia e Germania). Non è un male in sé.

In parte ci espone alla speculazione dei mercati, che va contrastata e frenata, ma la relazione con i mercati finanziari globali non sembra essere a livelli patologici (il 66% del debito è italiano) e - è bene ricordarlo - va coltivata se si vuole rilanciare il paese con investimenti pubblici importanti, come è proprio nello spirito dell’appello. 

Altrimenti dove prenderemo le risorse liquide per sostenere la ricerca, la scuola, il welfare e le tante cose che propone Sbilanciamoci? Il problema del debito italiano è soprattutto un problema di gestione e di utilizzo. E’ andato fuori controllo l’uso (dissennato) che si è fatto di risorse tutto sommato sostenibili per i nostri bilanci.

Bene allora fa la campagna sulla finanza pubblica a sensibilizzare i cittadini sul tema. E’ un contributo di grande rilievo, per contrastare il dogma neoliberista. Ma suggerisco di fare attenzione a non offrire il destro agli avversari di sempre, andando a demonizzare il debito pubblico in quanto tale. Rischiamo di fare il gioco proprio di chi vuole mettere Keynes in soffitta.

Alessandro Messina (@msslsn)
pubblicato su www.finansol.it  
5 ottobre 2012