Banche e migranti: anche lo ius soli aumenta il Pil



C’è una questione, che sembrerà meschina, da considerare nelle riflessioni sullo ius soli, ossia sul diritto di cittadinanza per coloro che nascono nel nostro territorio, tema posto all’attenzione dell’opinione pubblica dalla Ministra per l’integrazione Kyenge. 



Si tratta delle implicazioni economiche della materia. Ciò perché l’inclusione sociale – di cittadinanza – delle persone straniere ne condiziona anche quella finanziaria e creditizia, dunque produttiva. E quest’ultima, come noto, a sua volta vincola fortemente il raggiungimento di uno status pieno di cittadinanza. Col rischio che esistenze individuali o di interi nuclei familiari si avvitino in una spirale di esclusione prima sociale e poi economica.


Ma andiamo con ordine. Prestereste dei soldi ad una persona che nei prossimi sei mesi potrebbe essere espulsa dall’Italia? Tanto più che tale rilevante incertezza si associa quasi sempre ad un lavoro precario, o in parte irregolare, e di solito all’assenza di solidi patrimoni familiari alle spalle, date le giovani radici dei migranti nella nostra comunità nazionale?


Ecco questa è la situazione media del cittadino straniero che si presenta in banca per la richiesta di credito. O anche per l’apertura di un conto corrente. Una situazione che negli ultimi anni ha registrato dei progressi indiscutibili, anche per il forte attivismo dell’industria bancaria, decollato per fortuna prima della crisi. Secondo il rapporto periodico redatto dal Cespi insieme all’ABI, il 61,2% degli immigrati adulti è “bancarizzato”, un dato incoraggiante anche se ben al di sotto di quello relativo agli italiani (85%), che pure sono tra i più esclusi dai servizi finanziari in Europa. La tendenza è comunque assai positiva: l’inclusione finanziaria dei migranti aumenta ad un tasso del 18% l’anno (crescita dei conti correnti intestati a stranieri).


Come conferma un recente studio di CRIF, oggi circa il 12% delle richieste di finanziamento provengono da persone di cittadinanza straniera. Il 3% è relativo a carte revolving (cioè con addebito rateale, la stessa quota per gli italiani), il 5% a fidi in conto corrente (per gli italiani è al 7%), il 3% a mutui per l’abitazione (5%), il 37% al prestito finalizzato (per l’acquisto di elettrodomestici, automobili, ecc., 41% per gli italiani) e il 41% in forma di prestito personale (contro il 31%). Quest’ultimo dato si rivela di particolare interesse. Infatti, la forma più semplice di credito al consumo sembra continuare a svolgere una funzione implicita di “primo credito” per l’inclusione finanziaria di soggetti privi delle credenziali tipicamente richieste dal sistema bancario (le cosiddette referenze creditizie). 

In considerazione di ciò e della bassa elasticità mostrata dalla domanda al prezzo (tasso d’interesse), si può dire un po’ grossolanamente che il credito al consumo assume per l’Italia il ruolo che nelle economie emergenti hanno assunto da decenni le istituzioni di microfinanza: favorire l’inclusione creditizia di persone prima considerate “non bancabili” e consentire il loro progressivo inserimento nei circuiti economici e finanziaria formali.


Spesso infatti è proprio passando per il prestito personale che un cittadino straniero accede al primo credito necessario per l’avvio di un’attività imprenditoriale: un segmento produttivo che in Italia continua a crescere - in piena controtendenza con quanto accade alle piccole imprese autoctone - a tassi tra il 22 e il 25 per cento l’anno. Un terzo di queste imprese è intestato ad una donna.


Insomma, c’è un grande potenziale anche economico che va aiutato a svilupparsi. Come? Certamente liberando il famoso decreto attuativo sul microcredito che da due anni giace sulla scrivania del Ministro dell’Economia e delle Finanze (ai sensi dell’art. 111 del TUB). E poi affrontando con determinazione e pragmatismo il tema dello ius soli. Questione di cittadinanza. Ma anche di Pil. 




di Alessandro Messina (@msslsn)



in Profittevole, rubrica per Vita

giugno 2013