Servizio civile: nulla da obiettare?

82.000 domande previste per il 1999, più di 4.800 enti convenzionati per l’assegnazione degli obiettori, 27 milioni di ore annuali prestate in un anno, un risparmio per lo stato calcolato in 680 miliardi di lire. Sono i numeri del servizio civile in Italia: un fenomeno in costante crescita da anni - rappresenta ormai quasi il 40% della “leva” complessiva - che si trova, però, negli ultimi mesi in una situazione di paradossale crisi. 

Dopo il passaggio dalla leva obbligatoria all’esercito di professionisti, infatti, il servizio civile ha scoperto di essere stato sempre interpretato dalla classe politica come mera azione di obiezione di coscienza e dunque, venuto ormai meno l’oggetto del rifiuto, si ritrova ora relegato a un ruolo marginale delle politiche pubbliche e formative. Non che prima la situazione fosse gran che migliore. 
 
La legge 238 del 1998, istitutiva delle principali innovazioni sul tema, in particolare introducendo il diritto all’obiezione come diritto soggettivo, ancora aspetta che la maggior parte dei suoi precetti vengano applicati, e si tratta di quelli principali, relativi a formazione dei giovani, aggiornamento dei coordinatori, possibilità di andare all’estero, opportunità per le donne. E’ chiaro che ci si trova di fronte ad uno scontro di vedute non irrilevante: da un lato il governo che si preoccupa di come risparmiare qualche manciata di miliardi (sono solo 120 quelli stanziati per il 2000, contro i 171 del 1999 e un’esigenza minima calcolata in 250); dall’altro le organizzazioni del terzo settore che chiedono prima di tutto un cambiamento culturale per una promozione del servizio civile come fattore di coesione sociale e di formazione alla cittadinanza attiva.

D’altronde era settembre quando Massimo D’Alema, a chi gli chiedeva lumi sulle sorti degli obiettori di coscienza dopo l’abolizione della leva, rispondeva con un bel: “…e non posso mica ripristinare il sabato fascista solo per tenere in vita qualche organizzazione di volontariato!”.
Questo mentre il ministro della difesa Carlo Scognamiglio sottolineava come, senza più l’obbligo di servire la patria, finalmente anche la “farsa” dell’obiezione di coscienza sarebbe terminata e con essa tutte le “ipocrisie” di obiettori e aspiranti tali, dei dirigenti di enti che li ospitano, di pacifisti e di qualche politico ormai out. La retorica è quella dell’assistenzialismo e dell’efficienza del privato: cosa vogliono queste organizzazioni che finora hanno soltanto sfruttato i giovani, basandosi sul loro apporto gratuito? Intanto le Forze Armate ricevono altri 2.000 miliardi per l’esercizio e 1.000 per la riforma della leva (un soldato di leva costa in media 15 milioni)...

Ma qual è la situazione e soprattutto quali sono le prospettive del servizio civile nel nostro paese? Di fronte alla riforma della leva è chiaro che diventa sempre più urgente trovare una politica coerente per quanto concerne il servizio civile. Un vecchio disegno di legge ormai buono solo per gli archivi è quello del 1997 (governo Prodi). Arrivato prima della riforma della leva, tale disegno prospettava l’istituzione di un Servizio Civile Nazionale (SCN) in cui sia gli obbligati alla leva sia gli esentati (comprese le donne) potevano partecipare ad un periodo di servizio civile, valorizzato da una particolare attenzione alle attività formative. 

La legge 238 ha in parte recepito alcuni di questi contenuti, ma rimane il problema di ridefinire tutto ciò alla luce delle nuove decisioni sulla leva. In proposito risulta che il governo D’Alema (prima versione) abbia elaborato due disegni di legge che coinvolgono in qualche modo il servizio civile. Va subito detto che di nessuno dei due è stato possibile leggere il testo, ancora non depositato. Da quello che si è letto sui giornali sembra che il primo sia una nuova formulazione del SCN: volontarietà e non obbligo della scelta, allargamento anche alle donne, possibilità di andare all’estero. Si parla di un fondo nazionale di circa 220 miliardi (con l’inquietante precisazione di una “copertura tramite risorse pubbliche e private”) e di due regolamenti necessari a indicare i criteri per valutare l’utilità sociale dei progetti in cui i ragazzi saranno coinvolti e per giudicare l’idoneità dei volontari al servizio specifico. Il tutto recependo in pieno la logica dei crediti formativi e del servizio civile come tirocinio. L’altro disegno di legge, invece, cita i volontari a proposito delle attività di assistenza agli anziani, presentando anche la possibilità di un rimborso spese per gli impegni più gravosi.

Entrambi gli schemi delineano un progetto di trasformazione del servizio civile in qualcosa di molto simile all’esperienza inglese. Anche nel Regno Unito, infatti, dove la leva non è obbligatoria, il volontariato viene visto come ponte verso la partecipazione sociale e la formazione professionale, in parte per rispondere alla crisi del welfare, in parte per trovare soluzioni alla disoccupazione (giovanile e non, basta pensare alle politiche per i disoccupati di lungo periodo, etichettate come New Deal). Ma anche queste esperienze non sono immuni da critiche. L’apposita commissione creata dal governo britannico - Commission on the Future of the Voluntary Sector - ha, già nel 1996, evidenziato diverse perplessità sull’uso del servizio civile in questo senso, sottolineando come un simile programma può sfruttare tutte le sue potenzialità solo se si tengono ben separati il volontariato puro, che rimane e va comunque promosso, e quello istituzionale e, soprattutto per quest’ultimo, si investe nel momento formativo.

Si tratta, insomma, in Italia come altrove, di trovare quegli accorgimenti pratici che garantiscano una coerente ed efficace gestione di queste esperienze, per evitare che restino in balia dell’approssimatività e della distorsione dovuta al prevalere di politiche “nascoste” e dai fini non dichiarati.


di Alessandro Messina
per Poco di buono, rivista diretta da Goffredo Fofi, marzo 2000