Una riforma ambiziosa per il terzo settore


Il Governo va avanti sulla riforma del terzo settore. Il disegno di legge delega approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 10 luglio, già commentato per Pagina99 da Paolo Venturi e Flaviano Zandonai, conferma molti dei punti contenuti nelle Linee Guida che lo hanno anticipato, base della consultazione lanciata frettolosamente lo scorso 16 maggio (tenuta aperta per meno di un mese), e commentata per Pagina99 da Giovanni Moro.
 
La notizia è positiva per diversi aspetti. 
Il nonprofit è da almeno un paio di decenni in continua trasformazione senza che si sia affermata una visione strategica chiara e un conseguente e coerente assetto di rapporti istituzionali (con la pubblica amministrazione, il mercato, tra le stesse diverse componenti del mondo senza scopo di lucro). A seconda dei governi che si sono succeduti, le organizzazioni del terzo settore sono state viste come fornitori di servizio “a basso costo” nel campo del welfare (molto), come produttori di nuova e buona occupazione (poco), come potenziali evasori fiscali (abbastanza), come corporazioni funzionali ad alimentare e mantenere il consenso politico (troppo).

Ne è derivato un affastellarsi di norme - a volte anche in contraddizione tra loro - che sono di impedimento ad un razionale sviluppo delle potenzialità sociali ed economiche del comparto. Così, ciò che ha prevalso è stata soprattutto la crescita “esogena”, tirata cioè da forze esterne che del terzo settore si sono avvalse per diversi motivi. 

I numeri messi a disposizione dall’Istat sono lì a dimostrarlo: il 5% delle organizzazioni detiene l’82% del flusso di risorse economiche che arriva ogni anno al nonprofit. Si tratta di circa 15 mila organizzazioni che - per oltre il 60% - si concentrano su sanità, istruzione e assistenza sociale. È l’esternalizzazione - o privatizzazione - di una componente crescente del nostro welfare che solo in parte (minima) è stata guidata in modo consapevole dalla politica, mentre in massima parte, soprattutto a livello locale, si è generata come vincolo dovuto alla riduzione progressiva della spesa pubblica (che però in tanti altri ambiti è ben aumentata, nello stesso periodo).

Così le potenzialità di innovazione sociale e di crescita occupazionale sono state mortificate: nel terzo settore è cresciuta sì l’occupazione, ma ad un ritmo di un nuovo posto di lavoro ogni due che se ne perdevano nel pubblico, e i lavori precari all’interno del nonprofit son passati dal rappresentare poco più del 20% della forza lavoro (nel 2001) a coprirne il 55% (a fine 2011). Invece, nel frattempo, è crollato l’associazionismo che si occupa di cultura, attività ricreative, ambiente (il 65% delle istituzioni nonprofit, il 59% dei volontari, il  7% dei lavoratori dipendenti): -25% di addetti per le associazioni riconosciute, -20% per le non riconosciute. 

Il disegno di legge delega lascia ben sperare: nei princìpi delinea un quadro di riferimento assai condivisibile, negli obiettivi evidenzia una capacità di analisi non scontata. Come sempre, il diavolo è nei dettagli: saranno i decreti attuativi (se e quando il ddl sarà approvato dal Parlamento) a delimitare la portata innovativa degli interventi. Che saranno positivi se riusciranno a aprire nuovi spazi, generare migliori connessioni tra attivismo civico e auto-imprenditorialità, tenere insieme la zona grigia del mercato nonprofit e quella del profit sociale. 

E già, perché in teoria oggi tutto (o quasi) si può fare nell’ambito della cosiddetta sfera dell’economia sociale: associazioni, fondazioni, cooperative e imprese sociali nella forma delle società di capitali, perfino start-up innovative a vocazione sociale. Non c’è bisogno di grande innovazione nelle forme organizzative. Quello che manca è l’organicità del quadro, la semplificazione delle procedure, la trasparenza dei processi (nei rapporti coi cittadini e con i diversi centri di potere) e soprattutto la coerenza delle politiche pubbliche, locali e centrali. 

Poi c’è il discorso impresa sociale. La legge delega ne definisce bene il perimetro e sembra inquadrare con coerenza gli obiettivi della norma che dovrà aggiornare quella in vigore (155/2006). Importante è che in fase di stesura dei decreti non si voli basso, non si ceda alle grandi e piccole corporazioni e si centri l’obiettivo: dotare l’ordinamento dell’unica forma “ibrida” che effettivamente manca al terzo settore. Per fare impresa comunitaria senza necessariamente ricorrere alla formula cooperativa, per attrarre investitori (non speculatori) ma non per questo rinunciare agli obiettivi (e ai vincoli) sociali, per mantenersi sulla frontiera dell’innovazione senza dover rincorrere formalismi già obsoleti un secondo dopo che le norme sono pubblicate in Gazzetta Ufficiale (si pensi all’incoerente pretesa di definire puntualmente i settori di attività), per godere di piena cittadinanza imprenditoriale pur occupandosi di beni comuni e utilità generali.

Se si andrà in questa direzione, il terzo settore si prenderà una bella rivincita sull’ultimo decennio, quando ha tradito molte delle attese, e potrà dimostrare di essere veramente il luogo della nuova occupazione, dell’impresa sostenibile, dei lavori scelti.



di Alessandro Messina
per Pagina99, qui
5 agosto 2014