Start-up, l'illusione dell'impresa infinita


Accade in ogni film western che si rispetti: comunità allo sbando per qualche paura contingente si aggrappano al ciarlatano di turno che, occupando abilmente la piazza del  villaggio, tira fuori dalla tasca una pozione magica, e guadagna così potere e ricchezza personale. L’Italia degli ultimi anni, ahinoi, non sembra granché diversa. 

Il recente mito delle start-up assomiglia molto alle pozioni del Far West. A un certo punto qualcuno ha iniziato a raccontare che per rilanciare lo sviluppo serviva far nascere più imprese, così come per favorire l’innovazione tecnologica bisognava liberare le energie dei giovani creativi del paese. Le favole di Steve Jobs, Google, Amazon eccetera, hanno condito questa ideologia da due soldi. Come se bastasse ospitare un ragazzotto in un garage per far nascere una Apple…


Non serve (ma aiuta) aver letto Mariana Mazzucato per comprendere che l’innovazione è sempre il frutto di sedimentazioni culturali, sociali, imprenditoriali che richiedono investimenti di lungo termine e spesso dalla bassa profittabilità, così che solo il settore pubblico trova adeguati incentivi per realizzarli.

Attenzione: ciò non significa che l’intraprendenza economica privata non sia un valore o una risorsa per il paese. Le tre-quattrocento mila imprese che (da sempre) nascono ogni anno in Italia esprimono una vitalità economica che è parte costituente dei migliori asset della nostra economia. E dimostrano che il problema non è sviluppare la cultura delle start-up, quanto quella di una impresa solida e capace di guardare al futuro. Serve un concreto saper fare, la forza delle competenze e della specializzazione che nei decenni passati hanno distinto il successo dell’imprenditorialità italiana.


Invece l’Italia racconta ai suoi sempre più disorientati giovani, NEET o prossimi tali, che il futuro è nelle start-up, senza però associare a questo messaggio dalla rozzezza primitiva (“fate da voi”) uno straccio di concreto sostegno: i trasferimenti pubblici alle imprese - opaci, dalla dubbia efficacia, ma dal fondamentale ruolo - negli anni ’90 rappresentavano circa l’1,5 per cento del PIL, oggi sono sotto l’1 per cento, il dato più basso di sempre. 


Non solo, si sta realizzando anche un danno culturale: ministri, assessori e uno stuolo di guru dal curriculum incerto, vanno in giro a enfatizzare le start-up innovative, il modello della APP che ti cambia la vita, proponendo un approccio che assomiglia assai a quello del gratta-e-vinci e nulla ha di una seria politica economica. Difficile dunque rallegrarsi per la nascita delle 2300 start-up innovative su cui punta il governo, quando hanno ormai superato quota 89mila le imprese artigiane perse dal 2009 ad oggi.  


Così come appare quanto meno superficiale l’elegia dell’impresa sociale (altro capitolo della nuova retorica delle start-up, in salsa “innovazione sociale”) che nell’ultimo decennio ha creato occupazione - comunque minore e di minore qualità - solo in virtù della dismissione del welfare pubblico. Mentre quello che andrebbe incentivata è l’economia associativa e cooperativa (unica forma in crescita anche nella crisi) nei settori dove veramente il pubblico non può arrivare e serve innovazione: ambiente, cultura, turismo. 


Se l’intraprendenza economica è un valore aggiunto per ogni società, e la capacità di autoimpiego è una risorsa individuale cruciale nei momenti di declino economico, ne derivano pochi semplici consigli (non richiesti). Ai politici: sgonfiate questa bolla delle start-up, prima che vi esploda in mano, e occupatevi di creare veramente un ambiente friendly per chi ha buone idee. Ai giovani: non tutti nasciamo imprenditori ma avete il sacrosanto diritto di giocare le vostre carte, per cui credeteci, a patto di non dimenticare che serve tempo e fatica, nonché gli strumenti giusti (lasciate il “canvas” ai furbi consulenti e rispolverate la partita doppia). Alla sinistra: se è giusto diffidare delle bolle e della propaganda, occorre ricordare che Karl Marx definì le piccole imprese “ultimi rifugi per gli operai eccedenti”, insomma un’ancora di salvezza nel Far West del capitalismo. 


Ce n’è abbastanza per seguire con attenzione anche il fenomeno delle start-up.





Scheda 1 - Start-up e andamento delle imprese nel corso del 2013

Nel corso del 2013 sono state istituite 384 mila nuove imprese, pari al 7,4% del totale delle imprese attive (5,2 milioni). Si tratta di una cifra simile a quella di un anno fa e leggermente in calo rispetto al triennio precedente. Una tendenza speculare (dunque a segni invertiti) rispetto a quella delle imprese che cessano l’attività: oltre 1,2 milioni negli ultimi tre anni, con una crescita progressiva (2,7% nel 2013). Il saldo netto - la differenza cioè tra nuove e cessate - è un valore negativo che segna dal 2011 una perdita complessiva di oltre 50 mila unità produttive.

Il 64% delle nuove imprese ha la forma della ditta individuale, il 22% della società di capitali (s.p.a., s.r.l.), il 9% di società di persone. Tra quelle che cessano è più alta l’incidenza delle ditte individuali (71%) e delle società di persone (13%), mentre sembrano resistere meglio alle turbolenze della crisi le imprese dotate di capitali (e le cooperative).

Cresce e diviene sempre più determinante il contributo degli stranieri al tessuto imprenditoriale italiano. Nel corso del 2013, il 16% delle nuove imprese ha titolarità extranazionale, con un saldo netto positivo tra avviate (63 mila) e cessate (44 mila). Altro dato significativo è che il 46% delle nuove imprese “straniere” è promosso da giovani, cioè da persone under 35.

Più in generale, del totale delle start-up del 2013, le imprese avviate da giovani (sempre definiti come under 35) sono l’8%, anch’esse con un saldo positivo (15 mila), mentre quelle a propulsione femminile sono il 28% e hanno però un saldo negativo nel corso dell’anno (-4600).

Il 2 per cento delle nuove imprese ha forma cooperativa. Ciò è di rilievo sia perché mostra una maggiore incidenza delle cooperative tra le start-up rispetto a quanto avviene con riferimento allo stock di imprese attive (1,45%), sia perché le cooperative negli anni di crisi si stanno dimostrando decisamente più solide, tant’è che ogni anno il saldo netto tra istituite e cessate è sempre positivo, portando ad una crescita aggregata di circa 15 mila unità dal 2009 ad oggi.

Il 2014 lascia intravedere delle tendenze decisamente in discesa rispetto alla “natalità” delle imprese: nel secondo trimestre dell’anno il numero di iscrizioni è stato il più basso tra quelli registrati nell’ultimo decennio.



Scheda 2 - Le start-up innovative

Oggi spesso chi parla o scrive di start-up (senza ulteriori specificazioni) in realtà si riferisce ad un’accezione molto particolare e decisamente minoritaria del fenomeno “nuove imprese”. Si tratta infatti della formula delle “start-up innovative” introdotte dal governo Monti con il Decreto “Crescita bis” (d.lgs. n. 179/2012, artt. 25 e ss.), convertito nella l. n. 221/2012. Tale legge incentiva l’avvio di queste nuove imprese, nella forma di società di capitali o cooperative, se all’atto della costituzione presentano una serie di caratteristiche, tra cui: essere attive da non più di 48 mesi e per lo stesso periodo non distribuire utili; avere un valore della produzione inferiore ai 5 milioni di euro; adottare per oggetto sociale l’innovazione tecnologica.

Nel corso del 2013 sono state 896 le imprese nate con questa formula, contribuendo ad alimentare uno stock che a luglio 2014 è pari a 2.392 unità, gran parte delle quali nella forma della società a responsabilità limitata (81%). Oltre la metà ha un fatturato inferiore ai 500 mila euro e meno di 4 addetti. 
Le start-up innovative a vocazione sociale, che in base alla norma possono operare nei settori tipici dell’impresa sociale (welfare, cultura, istruzione, ecc.) sono 60.


di Alessandro Messina
in Noi orfani di Steve Jobs
speciale di Sbilanciamoci per "il manifesto"
8 agosto 2014