Cosa sia
veramente l’economia sociale nessuno lo sa. C’è chi la identifica con il terzo
settore, includendovi dunque tutte (e solo) le organizzazioni senza scopo di
lucro. Chi l’associa con l’economia promossa da imprese sociali de facto come le cooperative (tutte, non
solo quelle ai sensi della legge 381/1991). Chi vorrebbe inserire nel perimetro
- allargandolo al massimo - tutti i soggetti economici a vocazione sociale,
comprese le società di capitali “responsabili”.
Conforta
pertanto che a porsi la domanda oggi sia il nostro istituto nazionale di
statistica. Vi è infatti la fondata speranza che al rischio di un’ennesima
astratta discussione si sostituiscano presto dati quantitativi e precise
rilevazioni con cui confrontarsi.
Proprio di ciò
si è parlato durante il convegno Istat di presentazione dei risultati del
secondo censimento sulle istituzioni nonprofit. L’approccio ipotizzato dai
ricercatori presenti (Nereo Zamaro e Stefania Cuicchio dell’Istat, Barbara
Moreschi di CoopFond, Enrico Giovannetti dell’Università di Modena, Carlo
Borzaga di Euricse) è pragmatico e allo stesso tempo innovativo, almeno per le
statistiche nazionali.
E’ stato
ricordato come, secondo la definizione dell’Unione Europea (del 2013), la social economy si dovrebbe
caratterizzare per: 1) proprietà diffusa tra gli stakeholder; 2) partecipazione
degli stakeholder; 3) priorità dei vantaggi per lavoratori e stakeholder nella
distribuzione del valore economico generato; 4) processi decisionali
democratici. Criteri che sembrano calzare molto alle cooperative, meno ad
alcune componenti del nonprofit (pensiamo alle fondazioni), quasi nulla
all’impresa sociale in via di (ri)definizione.
Poiché la
statistica ufficiale ha bisogno di muoversi su categorie oggettive,
determinando criteri di classificazione che si confrontino con la realtà
operativa e le possibilità - ampie ma ancora non illimitate - fornite dagli
archivi, si è deciso di lavorare sul seguente universo di partenza: a) tutte le istituzioni nonprofit,
quelle che oggi rientrano nel censimento Istat; b) tutte le altre cooperative; c)
le low profit, oggi di fatto un
insieme vuoto ma che forse, se evolverà come sembra la normativa sulle imprese
sociali (ex. d.l. 155/2006), potrebbe
presto riempiersi di profit con destinazione sociale delle attività e - appunto
- limiti alla distribuzione degli utili.
L’aggregato dell’economia
sociale così composto ha un fatturato totale di 197 miliardi di euro a fine
2011, esprime il 7,5% delle unità produttive italiane (oltre 355 mila) e il
10,6% degli occupati (2,2 milioni). Nel decennio 2001-2011 questo “comparto” è
cresciuto del 24,2% per numero di organizzazioni e del 27% per occupati. La
crescita maggiore si registra al Centro (+35% degli occupati), e in alcuni rami
di attività che ben spiegano la ricchezza e l’eterogeneità di questo nuovo
ambito economico: c’è lo spazio del tradizionale welfare (sanità e assistenza
sociale, +126%), quello del nonprofit più dinamico (attività artistiche,
culturali e ricreative, +126%), la sorpresa delle imprese che forniscono energia
elettrica, gas, vapore (+120%). Con la conferma, minacciosa per chi mira ad una
solida democrazia, della crescita anche del comparto istruzione “privata” (+76%).
Le cooperative son
quelle che garantiscono la più stabile occupazione (il 96% degli addetti sono
assunti a tempo indeterminato), le associazioni meno (43%), ma ciò è ovviamente
correlato al grado di solidità economica, nonché alla impressionante
progressione dei lavori precari all’interno del nonprofit in genere, che son
passati dal rappresentare poco più del 20% della forza lavoro nel 2001 al 55%
di fine 2011.
Insomma, con questo
primo esercizio di misurazione l’Istat certifica un’economia sociale forte e in
grado di tradurre la sua crescita in occupazione. Virtù rara, ai tempi della
grande crisi. Ce n’è abbastanza per puntarci con convinzione, non solo nelle
statistiche ufficiali.
di Alessandro Messina (@msslsn)
in Profittevole, rubrica per Vita
maggio 2014