Si
parla molto di finanza d’impatto, o impact finance, come quegli
investimenti mossi dalla “intenzione di generare risultati misurabili, di tipo
sociale e ambientale, insieme ad un ritorno di tipo finanziario” (thegiin.org).
Per qualcuno si tratta del volano decisivo per l'innovazione sociale, per altri
del tentativo subdolo della grande finanza di appropriarsi di mercati che dovrebbero
essere pubblici, dal welfare alle energie.
L'eccesso
di enfasi di alcuni grandi player della finanza effettivamente genera
sospetti. Basti pensare che JP Morgan stimava nel 2010 a livello globale un
potenziale di investimento nel decennio per oltre 1.000 miliardi di dollari
(con profitti attesi superiori al 750%) e che oggi siamo ancora ben sotto quei
valori (17 miliardi investiti in tutto tra 2012 e 2013).
La
stessa JP Morgan, con il report 2013, ci fornisce interessanti elementi di
valutazione su chi siano gli operatori di impact finance e quali le
motivazioni che li spingano. Ne emergono cinque paradossi.
Primo
paradosso: in una prospettiva di innovazione, dunque di complementarietà più
che di sostituzione con le politiche pubbliche, sarebbe lecito attendersi una
forte attenzione ad ambiti in cui gli stati più spesso hanno fallito. Esempio
principe, la grande questione ambientale. Ebbene, solo un 5% degli operatori
censiti cerca un ritorno strettamente ambientale. Sinistramente più appetibile
appare la sfera del sociale, nella quale “l'effetto sostituzione” non potrà che
essere fortissimo.
Secondo
paradosso: se si cercano alto impatto e innovazione si deve essere pronti a
rischiare. Invece il 78% degli operatori predilige investire nella fase di consolidamento
di imprese e progetti (private equity), il 51% nella fase successiva all'avvio
(venture capital), solo il 18% si rivolge a start-up pure (seed capital).
Il
terzo paradosso deriva da cosa questi pionieri dell’innovazione finanziaria
chiedono ai governi: assistenza tecnica ai progetti sui quali investire e
garanzie pubbliche (67%), sussidi o agevolazioni fiscali (65%), partecipazione
agli investimenti (50%). Cioè, in altri termini, risorse e competenze. Proprio
ciò che, avremmo dovuto presumere, i poveri stati colpiti dalla crisi non sono
più in grado di mettere in campo. E la cui supposta lacuna giustificherebbe il
ricorso a questa finanza privata per il raggiungimento di alcuni obiettivi
tipici di una democrazia.
Ma,
si dirà, gli Stati non sono certo in grado di garantire soluzioni di ingegneria
finanziaria e di accesso ai mercati come possono fare - in modo agile e
“innovativo” - intermediari privati, tanto più se operanti su scala globale. E
qui arriva il quarto paradosso: alla domanda su quali siano i principali
ostacoli per il mercato, il dito viene puntato contro l’assenza di
un’appropriata offerta di capitale per i diversi profili di rischio-rendimento
degli investimenti e (sic!) sulla difficoltà ad uscire dall'investimento.
Infine,
ci si può aspettare che laddove vi siano ancora elementi aleatori sulle
tecniche condivise a livello nazionale o internazionale per la valutazione
degli investimenti pubblici - tema su cui peraltro vi è una immensa e assai
accurata letteratura, figlia soprattutto degli anni delle politiche keynesiane,
oggi purtroppo in fase di abbandono - nel caso di operatori di mercato,
privati, che devono rendere conto solo ai propri clienti e azionisti, tale
problema sia stato abbondantemente superato. Invece, quinto e ultimo paradosso,
l’altro grande cruccio degli operatori – su cui chiedono aiuto proprio ai
governi – riguarda le pratiche di misurazione dell'impatto.
Insomma,
la finanza d'impatto sembra essere a metà del guado tra innovazione e
predatorietà. In questa ambiguità rischiano di perdere posizione i veri
pionieri e guadagnarne i filibustieri, che si affacciano avidi a questo nuovo
mercato. Agli innovatori sociali (veri) la responsabilità di vigilare con
attenzione e non farsi tentare dal solito piatto di lenticchie, tanto più se in
salsa italiana.
di Alessandro Messina (@msslsn)
in Profittevole, rubrica per Vita
febbraio 2014