Continua carsica la discussione sullo status dell’impresa sociale. L’ultima occasione è stata fornita dalla
presentazione di una proposta emendativa della legge che regolamenta la
materia, il decreto 155 del 2006. La norma non è passata e forse è una fortuna.
Ci sarà più tempo a disposizione per trattarne meglio i diversi profili che non
convincono.
Primo punto: con l’emendamento si prevede che tutti i
soggetti nonprofit che svolgono “attività economica organizzata” assumano automaticamente la qualifica di impresa
sociale (con tutto ciò che ne deriva, inclusa la possibilità di distribuzione
limitata degli utili). Non ha senso. Ricordiamoci che la teoria economica spiega
l’esistenza delle organizzazioni senza scopo di lucro anche grazie al
cosiddetto non distribution constraint,
che abbassa le asimmetrie informative e genera fiducia. Non è tutto, ma non è
giusto annullarlo a prescindere. E non sarebbe un bel segnale di attenzione
costringere le “nonprofit pure” ad una corsa a cambiare lo statuto per ribadire
la propria diversità.
Un secondo cruciale punto riguarda gli ambiti di attività,
che vengono estesi rispetto alla norma originaria. Questa, di fatto, definisce oggi
l’intero perimetro del welfare, dell’istruzione, formazione e ricerca,
dell’ambiente, della cultura. E’ molto ampio, forse troppo, ma insieme poco
adatto a cogliere le frontiere dell’innovazione sociale, che riguardano più
spesso specifici target di mercato, modelli di produzione, processi e
organizzazione del lavoro, più che predefiniti settori. L’emendamento proposto
non affronta questa fondamentale questione ma si limita ad aggiungerne alcune eventuali
declinazioni, come il social housing, il microcredito, il commercio equo e
solidale, l’intermediazione della forza lavoro svantaggiata. Un approccio che
non paga mai: inseguire l’innovazione sul piano delle sua fenomenologia è
fatica di Sisifo. Meglio ragionare di processi e modelli.
Vi sono poi almeno tre rilevanti vulnus della norma in vigore che la proposta emendativa non
affronta.
Il primo riguarda l’inserimento dei lavoratori svantaggiati
e le relative categorie, rimaste intonse rispetto alle previsioni di legge.
Andrebbero invece inserite nella norma almeno una parte delle altre otto
categorie sociali che pure il regolamento comunitario preso a riferimento (CE
2202/2002) considera tra quelle che hanno «difficoltà ad entrare, senza
assistenza, nel mercato del lavoro»: dai migranti alle persone adulte che
vivono sole con figli a carico, dagli over-50 disoccupati alle donne che vivono
nelle aree a forte disoccupazione femminile. L’Italia ha i peggiori indicatori
d’Europa (o quasi) proprio rispetto a questi gruppi sociali.
Vi è poi la decisione (svista?) di
lasciare raddoppiati i limiti patrimoniali per la responsabilità limitata (venti
mila euro) rispetto a quanto previsto dal Codice Civile, penalizzando così le
imprese sociali rispetto a quelle di capitali (a cui ne bastano dieci).
Il terzo grave vulnus non affrontato concerne il
coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari delle attività. Resterebbe così
inattuata, infatti, la previsione della legge delega (118/2005) che chiedeva di
prevedere «forme di partecipazione nell'impresa anche per i diversi prestatori
d'opera e per i destinatari delle attività». Certamente la semplice
informazione non può essere considerata tale.
Insomma: la legge sull’impresa sociale merita un profondo
lavoro di revisione. Affrontare con coraggio il tema della distribuzione
“ragionevole” degli utili, stabilita nell’emendamento secondo criteri analoghi
a quelli previsti a validi oggi per le cooperative, è un passo importante per
andare incontro alle esigenze di efficienza finanziaria e capacità
d’investimento delle imprese sociali. Ma non basta. Serve affrontare insieme
gli altri aspetti definitori e qualificanti, pena l’incremento della confusione
normativa, dei pregiudizi conservatori, dell’opportunismo di pochi furbi. Ne va
del futuro dell’innovazione sociale in Italia.
di Alessandro Messina (@msslsn)
in Profittevole, rubrica per Vita
marzo 2014