Una delle ricchezze italiane è rappresentata dal vasto
tessuto di piccole imprese e dalla vitalità, soprattutto nel Nord del paese,
con cui giovani, artigiani, agricoltori, innovatori di vario genere danno vita
a nuove iniziative imprenditoriali. Nonostante la nota, drammatica, ostilità
del contesto di regole e controlli all’intraprendenza economica di piccolo
taglio (tutto cambia se si muovono i pochi soliti “grandi” nomi) ogni anno in
Italia nascono oltre 200mila imprese. Che però in meno del 50% dei casi
superano il terzo anno di vita.
I motivi? Tensioni finanziarie, problemi nella compagine
societaria, competenze non adeguate (o non aggiornate) al business scelto, burocrazia
e corruzione, sottocapitalizzazione. Questi dati indicano alcune direttrici
entro cui disegnare politiche pubbliche tese a promuovere la creazione di nuove
imprese. Innanzitutto la semplificazione di alcuni processi autorizzativi e
costitutivi. Poi la promozione di luoghi, anche virtuali, di affiancamento e
coaching del nuovo imprenditore (incubatori, centri servizio, acceleratori).
Inoltre, la definizione di nuovi strumenti finanziari.
Il recente decreto del Governo, cosiddetto Crescita 2.0,
molto fa in questa direzione, anche se con dei limiti di perimetrazione
discutibili. Non si capisce infatti perché – in una fase di grave crisi dell’economia
e dell’occupazione – il governo decida di rendere più semplice avviare un
centro per le biotecnologie (come è giusto che sia) ma non aprire un ostello
della gioventù, lanciare un’impresa sociale ma non un laboratorio di sartoria.
Appare assai ingenuo (e un po’ troppo “fumoso”) questo accento sull’innovazione
in chiave solo tecnologica – seppur con un occhio al “sociale” – in un paese
come l’Italia dove l’eccellenza sta nell’agroalimentare, nella moda, nell’artigianato,
nel turismo e non certo nella Silicon Valley. Il segnale dato, comunque, va
nella giusta direzione. Anche per quanto riguarda l’innovazione finanziaria,
con l’introduzione del crowdfunding per la raccolta diffusa di equity per le
nuove imprese. Pure su questo fronte si poteva essere più coraggiosi e
inquadrare in un regime di favore le diverse forme di “finanza 2.0”,
includendovi il crowdfunding filantropico, il social lending (credito “tra pari”
via web), il microcredito e la finanza mutualistica. Tutti ambiti che oggi
rischiano di restare stritolati dalle nuove regole della finanza globale
disegnate all’insegna del one size fits all.
Altro tema che meriterebbe di essere toccato da una
politica pubblica di indirizzo nazionale è la valorizzazione e messa in rete
delle tante valide e collaudate esperienze locali, realizzate da associazioni
di categoria, agenzie di sviluppo locale, poli universitari, banche del territorio.
Oggi esiste una vasta offerta – spesso assai qualificata – che purtroppo fatica
ancora ad emergere nel suo complesso e a tradursi in una sostanziale opportunità
per tutti. Ricordando inoltre che quel “tutti” va ben capito: c’è la crisi del
lavoro, manca una politica industriale, ma non per questo diventiamo tutti
imprenditori. Giusto è che chi non ne ha la stoffa sia aiutato a trovare un
lavoro. Per tutti gli altri, è cruciale offrire servizi, non contributi.
di Alessandro Messina
in RAPPORTO SBILANCIAMOCI! 2013. Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente
il rapporto per intero è scaricabile qui.