Le difficoltà dell’industria bancaria italiana sono atipiche
rispetto a quelle del panorama mondiale del settore. Da un lato c’è la
particolarità di un modello di business che fino a pochi anni fa tutti
consideravano “antico” e che ora – dopo la grande crisi dei subprime e della
finanza virtuale – è considerato vincente. Si parla del modello tradizionale
del fare banca in Italia, quello della cosiddetta “banca commerciale” o “di
territorio”, o anche “di relazione”. È il modello, cioè, che ha consentito alle
nostre banche di trovarsi poco esposte verso gli strumenti finanziari più
rischiosi, con un attivo tendenzialmente più proporzionato rispetto alla leva
degli impieghi, perciò ancora in grado di finanziare (poco e in modo eterogeneo)
l’economia reale nonostante la grande crisi.
Oggi però chi esalta questo modello di “banca all’italiana” dimentica
che si tratta dello stesso modello che in passato, anche recente, ha generato
l’arretratezza delle logiche di gestione, l’inadeguatezza di significativi
comparti aziendali, l’inefficienza delle procedure, la mancanza quasi
generalizzata di concorrenza. In una parola la “burocratizzazione” del sistema
bancario, ossia la sua assimilazione alle logiche della (peggiore) pubblica
amministrazione. Il tema non è di secondaria importanza considerato che fino al
1992 le principali banche italiane erano pubbliche e che il processo di
privatizzazione avviato allora ancora stenta a tradursi in un processo di reale
liberalizzazione, cioè nella strutturazione di un effettivo mercato bancario.
La crisi finanziaria scoppiata nel 2007 non è stata una sorpresa.
Chi seguiva con attenzione e senza pregiudizi (fuori da posizioni di conflitto
di interessi) i mercati finanziari, da almeno un decennio denunciava i rischi
di un sistema che è divenuto ogni giorno sempre più autoreferenziale e lontano dall’economia
reale. Un sistema in cui è andato crescendo il disinteresse per la funzione
primaria della finanza, quella di alimentare i processi di produzione di beni e
servizi. Invece, la finanza ha preso un’altra strada, generando e alimentando
solo se stessa, alla ricerca frenetica di profitti da reinvestire sempre e
solo, ancora, in finanza. Una spirale mortale che ha fatto esplodere la crisi
di paradigma produttivo odierna. Crisi che non è, si badi, attribuibile alla finanza,
ma in cui la finanza ha svolto, come sempre, un formidabile ruolo di
acceleratore.
E forse questo difficile momento storico può tradursi in una
colossale opportunità di cambiamento nell’agenda delle priorità di policy
makers e interi settori produttivi mondiali. Ma decisori e regolatori globali
si stanno dedicando dal 2008 (quasi) solo alla revisione delle regole della
finanza, per lo più sbagliandone l’indirizzo (da Basilea 3 all’Unione bancaria europea):
i derivati non sono ancora regolamentati e le grandi banche multinazionali
continuano a essere privilegiate rispetto alle piccole banche locali.
Evidentemente dalla testa dei regulators non è ancora uscito quel “martello
neoliberista” che fa vedere tutti i problemi a forma di chiodo. Come per tanti
beni comuni la risposta alla dicotomia stato- mercato può essere nell’impresa
cooperativa. Certamente così è per il bene pubblico “credito”.
Negli Usa, Obama ha messo le Credit Unions al centro delle
politiche economiche. In Italia le banche cooperative hanno tenuto in piedi il
sistema negli anni peggiori della crisi e continuano a rappresentare un modello
solido e resiliente. Effettiva declinazione di “democrazia economica”, con
conseguente e coerente impatto positivo sullo sviluppo dei territori, le banche
cooperative meritano il sostegno dei cittadini e l’attenzione dei governi.
Passa anche da qui il disegno di una nuova economia che sia in grado di
affrontare la pesante eredità di questa crisi.
di Alessandro Messina
in RAPPORTO SBILANCIAMOCI! 2013. Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente
il rapporto per intero è scaricabile qui.