Senza
spaventarci dell’eccesso di inglesismi, vale la pena mettere a fuoco come social lending e crowdfunding – fenomeni web di crescente rilievo – offrano
interessanti opportunità alle organizzazioni nonprofit più innovative e si
apprestino anche ad “invadere” il campo del mondo imprenditoriale.
Il primo dei
due, il prestito tra pari (peer-to-peer)
realizzato attraverso piattaforme che favoriscono l’incontro tra offerta e
domanda via internet, è relativamente più affermato. In Italia lo fanno
Prestiamoci, Smartika (che si chiamava Zopa prima di essere sanzionata da Banca
d’Italia), Boober. Si rivolge a individui, anche per esigenze di consumo o di
vita, e ad imprese, non importa se profit o meno.
Il crowdfunding è invece fenomeno più
recente che si è andato finora sviluppando soprattutto in chiave
“filantropica”: trova un progetto che ti piace e sostienilo con una donazione. Nel
nostro paese questo accade con Eppala e Produzionidalbasso. Ovviamente, nulla
vieta ad un progetto italiano di essere presentato su piattaforme internazionali,
a partire da Kickstarter (e infatti qualcuno già lo fa, anche con successo).
La rilevante novità
delle ultime settimane è l’introduzione del crowdfunding
all’interno del decreto cosiddetto “Crescita 2.0”, in particolare nella sezione
che definisce le start-up innovative, incluse quelle “a vocazione sociale”.
Proprio per favorire la nascita di nuove imprese, dunque, il Governo ha
previsto che le quote di partecipazione nel capitale di start-up innovative,
costituite in forma di s.r.l. o di cooperativa, possano essere collocate attraverso
“portali on
line”.
Si tratta di una
declinazione specifica – perché orientata solo al segmento delle imprese
innovative, per come il decreto le definisce – di quello che all’estero è
chiamato equity based crowdfunding.
Dunque non più raccolta fondi diffusa (perché di massa, crowd) di donazioni ma vero e proprio azionariato popolare promosso
attraverso il web.
Il tema è di
grande interesse, perché può aprire porte nuove a tanti progetti che si fermano
proprio davanti all’ostacolo della mancanza di fondi. Anche se la strutturale
complessità del quadro regolamentare finanziario, in cui inevitabilmente cade
questa nuova disposizione, rischia già di impaludarne le potenzialità. Sembra
infatti difficile conciliare il dinamismo del web – alla base del successo di
questi strumenti – con la supervisione Consob, che dovrà emanare apposito
regolamento, o con il ruolo vincolante nelle transazioni di banche e imprese di
investimento. Ma certo aiuta che sia stata prevista l’istituzione di un
registro per “gestori di portali” diversi
dalle banche, che potranno assumere anche la forma cooperativa.
Insomma, per chi
sarà pronto vi è l’occasione di innovare non solo nell’oggetto dell’attività
imprenditoriale, ma anche nel modo con cui finanziarsi. Una buona strada per la
ripresa? Forse. Certamente si tratta di un miglioramento dell’infrastruttura
finanziaria per le piccole imprese. La normativa merita di essere messa alla
prova, anche per darsi il tempo di correggere quelli che appaiono come degli
evidenti “buchi”: sulla definizione di imprese innovative o sul fatto stesso
che solo ad esse debba applicarsi il crowdfunding.
Poi va detto che
non tutti nascono imprenditori. L’esperienza e i dati ci dimostrano anzi che in
Italia il problema non è tanto far nascere nuove imprese (circa 200mila l’anno)
quanto farle sopravvivere. Servono dunque servizi di accompagnamento e
tutoraggio, e anche su questo fronte si vedono segnali incoraggianti, come
l’iniziativa delle BCC (www.buonaimpresa.it) o quella del Ministero dello
Sviluppo Economico (www.progettokublai.net).
Con una punta di
visione e un po’ di slancio potremmo affermare che social lending e crowdfunding,
combinati insieme, rappresentano la versione web 2.0 di quella che un tempo si
sarebbe chiamata finanza popolare. Quale matrimonio migliore, allora, che con
il terzo settore?
di Alessandro Messina (@msslsn)
in Profittevole, rubrica per Vita
novembre 2012