E’ di attualità
in Europa il concetto di “social business”, cui la Commissione europea dedica
una specifica iniziativa,
intuendo che da qui possa arrivare un contributo trainante per la ripresa
(anche) del Pil comunitario. Va detto subito a scanso di equivoci che l’“impresa
sociale” di Bruxelles è diversa da quanto disciplinato in Italia con il decreto
155 del 2006. Due le principali differenze: guardare al processo produttivo più
che a specifiche forme societarie o ambiti di intervento; nessun tabù sulla
distribuzione degli utili. Proprio le due lacune per cui, a modesto parere di
chi scrive, la legge sull’impresa sociale in Italia può considerarsi un
fallimento.
Infatti, in
Europa, a partire dalla Gran Bretagna, “social business” non fa necessariamente
rima con nonprofit. Anzi. Semmai si va affermando il concetto di “low profit”.
Utili cioè se ne possono distribuire, purché in modo contenuto, limitato dal
buon senso o da tetti fissati da norme o regolamentazione secondaria. Così non
si allontanano gli investitori (anche sociali) e non si disincentiva l’efficienza
finanziaria delle aziende (seppur sociali).
Certo, c’è il
rischio di un po’ di confusione iniziale: se il terzo settore, per come lo
abbiamo sempre inteso, è a cavallo tra stato e mercato, il “social business” è
a cavallo tra i tre! Potrebbe essere profit o nonprofit, privato o pubblico
(entro certi limiti). Sicuramente non è scontato considerare “social” tutto ciò
che è nonprofit. E la partita si complica non poco per la definizione di ogni
quadro di regolamentazione.
Ma offre anche
grandi opportunità. Il lavoro di Bruxelles, infatti, mira a definire politiche
di indirizzo e strumenti di incentivo che possano rientrare nel pacchetto che
dal 2014 al 2020 sarà a disposizione degli stati membri.
Così si parla di
finanziamenti, accesso al credito, mercato dei capitali, microcredito. Anche
qui con il rischio di qualche confusione. I funzionari europei, ad esempio,
continuano a citare il programma Progress
del Fondo europeo degli investimenti (FEI) come modello di intervento per il
social business. Ma Progress supporta
gli intermediari finanziari che vogliono fare microcredito in un’accezione
tradizionale del termine: prestiti fino a 25 mila euro a microimprese (a
proposito: il primo contratto col FEI in Italia lo ha firmato a luglio scorso la
BCC di Mediocrati, che opera in Calabria). Pur riconoscendo il valore sociale
dell’autoimpiego, non è chiaro cosa c’entrino un piccolo artigiano o un
commerciate con l’idea di social business
che la stessa Commissione declina come “quell’attività d’impresa il cui principale
obiettivo è l’impatto sociale più che la generazione di profitti per i propri
soci”. O ancora come imprese che “sono gestite secondo modalità trasparenti e
partecipate, coinvolgendo lavoratori, consumatori, portatori d’interesse”.
Questa attenzione ai
“processi” di partecipazione non può non richiamare alla mente la forma
cooperativa, in qualche modo la mamma di ogni “impresa sociale”. La sfida di
Bruxelles, che merita di essere incoraggiata, è capire se può essere
regolamentata quella contaminazione virtuosa che, da sempre, nel mercato esiste
tra le migliori pratiche della cooperazione e gli stili organizzativi e
manageriali delle imprese di capitali.
Anche per questo risulta cruciale
novità, per noi italiani, la flessibilità con cui Bruxelles gestisce la
questione degli utili, con l’idea di “low profit”. Fondamentale per attrarre
capitali privati verso imprese innovative dal punto di vista sociale e
ambientale, dunque favorirne lo start-up, la crescita, il consolidamento. E
importante anche per promuovere la nascita di mercati dei capitali
“responsabili”, che non siano costretti a inseguire in borsa le quotate “meno
peggio” ma possano fare un virtuoso cherry-picking
tra le migliori pratiche.
Funzionerà? C’è da augurarselo
nell’interesse dei tanti innovatori sociali che in Italia non sono mai mancati.
di Alessandro Messina (@msslsn)
in Profittevole, rubrica per Vita
settembre 2012