Tendiamo a
dimenticarlo, distratti dallo scandalismo dei media e dalla distorta esperienza
soggettiva, ma il nostro sistema sanitario è una eccellenza riconosciuta a
livello internazionale. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità è il
secondo miglior modello al mondo per grado di copertura dei bisogni e qualità
media delle prestazioni.
E non è neanche
particolarmente costoso. Spendiamo in media - sommando spesa pubblica e spesa
privata - il 9% del Pil, contro l’11,2% della Francia o il 10,5% della
Germania. Con una quota di contribuzione dei privati tutt’altro che
irrilevante: pari in Italia al 30% del totale, contro il 21% del Regno Unito, il
28% della Francia, il 29% della Germania.
Eppure la nostra sanità è in forte
trasformazione. Per almeno due spinte, una virtuosa, l’altra meno. La prima
riguarda la necessità di spostare il baricentro del sistema dagli ospedali (formidabili
divoratori di risorse) all’assistenza primaria e domiciliare (più calda e meno
costosa). Questo è infatti il principale obiettivo del recente Decreto Sanità
(D.L. n. 158 del 2012), che all’articolo 1 disciplina il riordino
dell’assistenza territoriale. Solo così troveremo le risposte per i crescenti
bisogni che derivano dalle evidenti e ormai consolidate tendenze del nostro
tessuto demografico e sociale, sempre più caratterizzato da anziani soli,
famiglie monoparentali, cittadini stranieri.
Dovendo per di più recuperare gap antichi. A Capodarco, dove si è
svolto l’ultimo Forum di Sbilanciamoci (la decima edizione della
“Contro-Cernobbio”), Pietro Barbieri, presidente di FISH, ha ricordato
seccamente dati di cui c’è poco da andare orgogliosi: "Siamo il
terz'ultimo paese nell'Unione Europea a 27 per spesa sociale sulla
disabilità".
Qui ci si
scontra con la seconda spinta “riformatrice”, quella meno virtuosa, tutta finanziaria.
Secondo l’ECOFIN, la copertura assistenziale pubblica in tutti gli stati membri
dovrà scendere al 50% entro il 2050. Fatte due somme, per l’Italia significa
trasferire 30 miliardi di euro l’anno dal sistema pubblico (incluso quello in
convenzione, sia chiaro) a quello privato tout court, cioè sul “mercato”.
Ma quale mercato
della sanità può mai nascere in un contesto di redditi decrescenti e lavori
intermittenti? I rischi di andare verso uno sfarinamento ulteriore del welfare
ed un’esasperazione dell’esclusione sociale appaiono evidenti.
Il tema va
presidiato con attenzione. Nel frattempo,
se non si vuole delegare tutto ad una sempre più debole politica, sarà bene rimboccarsi
le maniche, ricordando che “pubblico” non fa solo (e sempre) rima con statale e che in Italia è ampia e
gloriosa la tradizione dell’auto-organizzazione e del mutualismo.
E’ proprio quanto
sta accadendo all’interno del movimento cooperativo, dove crescono
cooperative a specializzazione
sanitaria, farmaceutiche, di medici (soprattutto giovani e donne) e trovano
nuova linfa le antiche ma sempre valide mutue sanitarie. Attenzione: nessuno rimpiange
il Dott. Tersilli (l’Alberto Sordi medico della mutua), e la mutualità di cui si parla deve essere veramente
integrata nel sistema nazionale, svolgendo una funzione estensiva dell’accesso
ai diritti, per tutti. La cooperazione, e più in generale il mutualismo,
possono svolgere un ruolo prezioso perché si arrivi ad un riordino “non traumatico”
del sistema sanitario: favorendo la massima copertura territoriale e omogeneità
dei servizi, dando valore alla relazione con l’utenza, che diventa essa stessa
protagonista della definizione dell’offerta, ottenendo maggiore efficacia a
parità di risorse economiche grazie alle intrinseche efficienze della formula
mutualistica, creando nuova (e buona) occupazione nei settori dell’assistenza
primaria e domiciliare.
La mutualità può
contribuire alla costruzione di un sistema sanitario più efficiente e relazionale,
dunque ad una medicina più umana, pertanto efficace. Che forse aiuterà gli
italiani anche a percepire meglio la qualità del welfare di cui (già) dispongono.
di Alessandro Messina (@msslsn)
in Profittevole, rubrica per Vita
ottobre 2012