Non sono mai stato iscritto a un partito politico. Non ho mai partecipato a un concorso per l’assunzione nella pubblica amministrazione. Sono arrivato a lavorare negli enti pubblici in modo casuale. Da neolaureato, e prima ancora da studente, mai ho provato interesse o attrazione per l’inserimento professionale nel pubblico impiego. Figlio culturale degli anni ’80 e ’90, l’unica possibilità che vedevo era nel privato. La cosa pubblica era quella di tangentopoli, della politica sporca e incomprensibile, dell’inefficienza e dell’inefficacia. A vent’anni si vuole andare veloci, scoprire il mondo, mettersi alla prova. E a metà anni ’90 avrei sfidato chiunque a cercare tutto ciò nella pubblica amministrazione.
Così ho lavorato in aziende private, enti di ricerca, organizzazioni non profit. Proprio il terzo settore mi è sembrato per anni la soluzione alla voglia di coniugare lavoro e produzione di utilità generale, o almeno diffusa. Poi la politica – sempre più inaridita da se stessa – ha cominciato a guardare a quelle istanze che, dal non profit, si diffondevano nel paese. Alcune di esse, quelle che, per capirci, tutta Italia ha scoperto con Genova 2001, erano diventate nel frattempo i miei ambiti di lavoro preferiti: la finanza etica, la riforma della spesa pubblica, lo sviluppo delle imprese sociali o responsabili.
Così cominciano le prime contaminazioni...