Oggi la corruzione nella Capitale è tornata di attualità. Ma c'è sempre stata. Pervasiva. Ripropongo a seguire quanto scritto nel 2009, dopo la mia esperienza di dirigente del Comune di Roma (2004-2007).
La
posizione che andai ad assumere era di quelle ghiotte. Decine di milioni di
euro da gestire, centinaia di rapporti con imprese e fornitori privati, un ruolo
di punta tra le attività dell’amministrazione.
Chi
c’era prima aveva lavorato bene, dicevano, anche se a me sembrava chiaro quanto
andasse re-impostato per migliorare efficacia ed efficienza dell’azione
amministrativa nel settore.
Fu
così che mi scontrai con Pablito. Le chiare origini sudamericane tradite dal
nome e dai tratti somatici non trovavano conferma nei modi da pariolino e nella
volgarità da basso impero, quello della Roma ‘de panza. Non era un consulente dell’ufficio. Né tantomeno un
dipendente. A una delle sue società erano stati assegnati degli appalti in
passato, per cui aveva intrattenuto stretti rapporti con l’amministrazione. Ma
ora quei contratti erano chiusi e non ce ne erano di nuovi. Perché stava sempre
tra i piedi, allora? L’atteggiamento era quello del dirigente in pectore. Agli
impiegati non dava consigli ma direttive. «Fabio perché stai spedendo quel fax
adesso?». «Me lo ha detto Pablito…». «Maria, hai finito quella relazione?».
«Non ancora, Pablito nel frattempo mi ha chiesto di preparare questa tabella…».
Cosa
legittimava Pablito a prendere tali iniziative?
Dopo
la terza volta - a pochi giorni dal mio arrivo - in cui entrò nel mio ufficio
con toni da “ti spiego io quello che devi fare”, decisi che non potevo
attendere oltre e lo invitai a fare due chiacchiere davanti ad un caffé. Gli
spiegai le mie - ovvie, ma non per lui - ragioni sulla necessità di governare
l’ufficio di cui ero responsabile. Si mostrò ragionevole. Chiese scusa per aver
abusato della mia disponibilità, ma - spiegò - si era basato sulle relazioni
pre-esistenti.
«Sai,
con il lavoro degli anni passati qui abbiamo consolidato un bel gruppo. A me
piace sentirmi utile. Io non ho problemi finanziari, così vengo a dare una
mano, porto la mia esperienza professionale. Con il dirigente precedente
avevamo creato un bel clima, di collaborazione…». Pur restando interdetto,
assunsi toni cortesi. Chiesi di comprendere che dovevo avere il tempo di
entrare nelle procedure, farmi idee proprie sui processi e sulle persone. Dunque,
lo pregai di non assumere iniziative senza averle prima concordate con me.
«Certo.
Capisco. Mi sembra giusto. E’ rassicurante che tu sia così responsabile…
D’altra parte a me il lavoro non manca, chiamami tu quando credi che ti possa
essere utile, ok?». Sorrisi, e fu allora che Pablito sferrò il primo attacco:
«A proposito: sto cercando delle persone da inserire in nuove attività… hai
qualcuno da presentarmi? potrei fare selezioni, certo, ma se tu hai qualche
amico che vuoi far lavorare… Tienilo presente, ok?».
«Va
bene. Grazie, ma non credo… Ora devo salutarti» cercai di dissimulare
l’imbarazzo con una battuta «Oggi devo anche recuperare il motorino dal
meccanico…» dissi guardando l’orologio. Pablito sorrise e non si fece sfuggire
l’occasione da me così imprudentemente fornita per un secondo tentativo:
«Prendi. Sono le chiavi della mia Mercedes. Non mi serve. E’ parcheggiata qui
sotto. Me la riporti quando vuoi, anche fra un mese…».
Abilmente,
Pablito stava cercando di “catturarmi”, proprio come era riuscito a fare con
buona parte dell’amministrazione. Non si tratta propriamente di corruzione, la
“cattura” di un funzionario o di un intero ente è qualcosa di più subdolo e
sottile, anticamera del vero e proprio illecito e zona grigia di piccoli e
grandi favoritismi.
Rifiutai
la Mercedes. Mi
guardò intensamente per qualche secondo. Capì. E io con lui. Da quel momento
saremmo stati nemici. Mi adoperai immediatamente per tagliare ogni rapporto tra
lui e il mio ufficio. Ma fu più dura di quanto pensassi: Maria - impiegata di
modesto livello - andava in crociera a spese di Pablito; il fratello di Fabio -
anch’egli impiegato - svolgeva una misteriosa attività consulenziale, ben
pagato, per Pablito; il politico di turno segnalava a Pablito persone alla
ricerca di una più o meno stabile occupazione, che puntualmente erano piazzate;
ogni tanto venivo a sapere di pantagrueliche cene dell’intero staff in
ristoranti nei quali Pablito teneva un conto sempre aperto…
La
mia fu una battaglia donchisciottesca e lui - dopo qualche cannonata andata a
vuoto - assunse l’atteggiamento di chi sa che alla lunga l’avrà vinta. Non si
arrese. Semplicemente si fermò ad aspettare che il mio cadavere passasse sul
fiume… o qualcosa del genere.
Io
scommettevo sul senso della cosa pubblica, sulla trasparenza delle procedure,
sull’imparzialità amministrativa. Pablito scommetteva su un antico tarlo della gens italica, su usi e costumi
consolidati, sul pensiero debole di una classe politica allo sbando.
Pian
piano, nei miei anni di attività in quell’ufficio, Pablito e le sue società
scomparvero dall’elenco dei fornitori. Misero radici negli enti limitrofi,
seguirono politici migrati altrove, si accasarono nei posti - per me - più
impensati. Poi io andai via. Da quel che so, Pablito è tornato al suo posto.
di Alessandro Messina
estratto da
"Servire lo Stato. Il mestiere del bravo burocrate"
scritto nel 2009 per le Edizioni dell'asino
"Servire lo Stato. Il mestiere del bravo burocrate"
scritto nel 2009 per le Edizioni dell'asino