Otto raccomandazioni per un obiettivo ambizioso. È questo il risultato finale dei lavori della task force su impact finance istituita internamente al G8 (dove l’Australia ha sostituito la Russia). Nulla di trascendentale, ma un po’ di buon senso, che non fa mai male:
1) definire obiettivi misurabili in termini di impatto;
2) spingere gli investitori a considerare le tre dimensioni del rischio, del rendimento e dell’impatto;
3) tradurre ciò in espliciti mandati agli amministratori dei fondi;
4) promuovere la forma del pay-for-success nelle politiche pubbliche, ad esempio attraverso lo sviluppo dei social-impact-bond;
5) ipotizzare l’utilizzo dei capitali dormienti per lanciare un grande fondo che possa catalizzare lo sviluppo della finanza d’impatto;
6) favorire la crescita della capacità organizzativa e gestionale dell’economia sociale;
7) definire le forme giuridiche idonee a coniugare la profittabilità del business con una missione sociale;
8) sostenere il modello di intervento della finanza d’impatto nella cooperazione internazionale.
Secondo la task force, voluta dal premier britannico David Cameron, seguendo queste indicazioni si potrebbero attrare risorse significative verso la finanza d’impatto: un trilione di dollari entro breve tempo, una cifra non impossibile - spiega la task force - se si considera che già oggi sono 13,6 i trilioni di dollari investiti nell’ambito dell’investimento socialmente responsabile (SRI), con 1.267 asset manager abituati ad incorporare prospettive multidimensionali (sociali, ambientali e finanziarie) nelle proprie scelte di allocazione dei fondi.
Il rapporto completo, dal titolo “Impact Investment: the Invisible Heart of Markets”, è disponibile per il download in socialimpactinvestment.org. Il testo ha i suoi limiti: le argomentazioni non sono del tutto robuste, molte analisi appaiono semplificate, i dati utilizzati non sono sempre significativi o comparabili tra loro (ad esempio tra i diversi paesi). Si tratta dei limiti impliciti nel modello di lavoro adottato, che non ha seguito percorsi standard, trascurando il coinvolgimento di centri studi istituzionali e di sedi di rappresentanza consolidate, ma che ha provato a far incontrare la visione e le competenze di studiosi e operatori, practitioner e politici, nonprofit e finanza.
Poteva uscirne fuori un bel pasticcio. Tutto sommato, ne è invece emerso un affresco innovativo, non paludato, abbastanza coraggioso da mostrare non tanto dove il re (la finanza) è nudo ma come può (o potrebbe) ritrovare la sua dignità. Al contempo evidenziando le buone pratiche già esistenti nei singoli stati e favorendo una nient’affatto comune contaminazione tra visione da liberismo anglosassone e approccio (non sempre da buttar via…) della “vecchia” Europa. Con Francia, Germania e Italia unite più che in altre occasioni a difendere la tradizione del welfare pubblico continentale.
Il risultato finale, tanto più se raffrontato con la montagna di tomi che vengono ogni mese prodotti dalle istituzioni finanziarie internazionali, appare come una fresca boccata d’ossigeno. Onore al merito, dunque, a chi ha condotto le operazioni. Dal Ronald Cohen che ha coordinato i lavori globali alla troika Melandri-Calderini-La Torre della task force italiana.
Ora bisogna passare con coraggio alla prossima sfida: frenare l’impatto negativo dell’altra finanza, quella che muove il 99% delle transazioni mondiali. Qui la distanza tra Europa continentale e visione UK è ancora più ampia ed ha già impedito di inserire, tra le proposte, quella di una Tobin Tax globale. Ma solo quando riusciremo ad associare la promozione (giusta) della finanza d’impatto (o responsabile, sostenibile, sociale, fate voi) con la penalizzazione (altrettanto giusta) della finanza speculativa, sganciata dall’economia reale, concentrata in pochissime mani, solo allora avremo creato i presupposti perché il cuore dei mercati batta davvero, e diventi visibile anche per coloro che stanno in fondo alla piramide sociale.
di Alessandro Messina
per VITA, novembre 2014