Cresce la finanza d'impatto, intesa come quell'insieme di investimenti che si preoccupano anche dei ritorni sociali e ambientali oltre che di quelli finanziari. Secondo l'ultimo report pubblicato dal Global Impact Investing Network (GIIN) ammontano a 46 mld di dollari gli asset impiegati a fine 2013 e si prevede una crescita di circa il 20% durante il 2014.
Il 42% di queste risorse è investito in programmi di microfinanza, il resto in opere infrastrutturali (energia, acqua, istruzione, casa, ecc.). Solo l'8% degli investimenti riguarda l'Europa, il 22% gli USA, tutto il resto va in America Latina, Africa, Asia, Europa dell'est. La gran parte degli operatori sono nordamericani ed europei: gestori di fondi (comuni o pensione), fondazioni, istituzioni di sviluppo, banche (poche).
La mappatura del GIIN comprende 125 operatori, ma nessun italiano. Eppure in Italia ha lunga e gloriosa storia una finanza che si preoccupa di produrre (e produce) impatto: nasce prima dell'unità nazionale e oggi muove circa 175 miliardi di euro tra banche mutualistiche, prestito sociale delle cooperative, fondi mutualistici, credito alle istituzioni nonprofit. Non è una finanza che mira a “sostituire” l'intervento pubblico, semmai a integrarlo. È piuttosto una finanza che accompagna i territori, lo sviluppo delle imprese, l'innovazione imprenditoriale.
Nel 2013, ad esempio, le BCC hanno finanziato oltre 2500 imprese giovanili, il 45% delle quali startup, hanno erogato 34 milioni di euro in interventi di microcredito a soggetti vulnerabili, hanno sostenuto per oltre 400 milioni di nuovi finanziamenti migliaia di progetti nel campo delle energie rinnovabili. E lo hanno fatto a partire da un’idea tanto semplice quanto rivoluzionaria: organizzare in forma cooperativa la gestione del denaro per controllarne l'utilizzo e destinarne i benefici al territorio di appartenenza della comunità di riferimento. Producendo con la finanza un impatto sociale e ambientale. Appunto.
Secondo alcuni, però, questa finanza (ormai) “tradizionale” è poco adatta alle sfide dell’innovazione sociale, che invece richiede strumenti nuovi, rappresentati proprio dall’impact investing. Vero, in parte. Le statistiche del GIIN indicano infatti che il 62% degli interventi realizzati prendono la forma tecnica del credito, solo il 22% di interventi in equity (capitale di rischio) e addirittura un minimale 3% va a imprese in fase di avvio (seed capital e startup). Dunque, si conferma la bassa predisposizione dei capitali privati a finanziare l’innovazione, anche quella sociale, preferendo intervenire su business già maturi (più redditizi e meno rischiosi).
Secondo alcuni, però, questa finanza (ormai) “tradizionale” è poco adatta alle sfide dell’innovazione sociale, che invece richiede strumenti nuovi, rappresentati proprio dall’impact investing. Vero, in parte. Le statistiche del GIIN indicano infatti che il 62% degli interventi realizzati prendono la forma tecnica del credito, solo il 22% di interventi in equity (capitale di rischio) e addirittura un minimale 3% va a imprese in fase di avvio (seed capital e startup). Dunque, si conferma la bassa predisposizione dei capitali privati a finanziare l’innovazione, anche quella sociale, preferendo intervenire su business già maturi (più redditizi e meno rischiosi).
È quanto accade nel sistema imprenditoriale puramente profit, come brillantemente dimostrato da Mariana Mazzucato nel suo The Entrepreneurial State, che sta facendo discutere - e ci si augura riflettere - l'establishment economico europeo (e non solo). La sostanza della lezione della Mazzucato, partita dall’analisi di fenomeni di innovazione quali Internet o l’iPhone, è che condizione cruciale perché si arrivi all’innovazione più potente e dirompente è che si creino ecosistemi in grado di promuovere la ricerca e la sperimentazione sganciate da risultati di breve termine, non necessariamente finalizzate alla ricerca di profitto. Un’azione che i capitali privati, per definizione, non perseguono, mentre lo Stato, con orizzonti temporali lunghi, grandi economie di
scala, e mosso da funzioni obiettivo più complesse, può favorire efficacemente.
Ecco un punto fondamentale. L’impact finance può essere valido alleato per la crescita dell’innovazione sociale. A patto che non si sottovaluti la natura pubblica di molti servizi essenziali, nel welfare, nella cultura, nel sistema educativo e della ricerca. E a patto di non trascurare le soluzioni, e sono molte, che il tessuto civico e imprenditoriale italiano ha già ideato e messo in campo con gli stessi obiettivi. Da più di un secolo.
scala, e mosso da funzioni obiettivo più complesse, può favorire efficacemente.
Ecco un punto fondamentale. L’impact finance può essere valido alleato per la crescita dell’innovazione sociale. A patto che non si sottovaluti la natura pubblica di molti servizi essenziali, nel welfare, nella cultura, nel sistema educativo e della ricerca. E a patto di non trascurare le soluzioni, e sono molte, che il tessuto civico e imprenditoriale italiano ha già ideato e messo in campo con gli stessi obiettivi. Da più di un secolo.
di Alessandro Messina (@msslsn)
in Profittevole, rubrica per Vita
giugno 2014