Distribuzione
dei profitti sì o no? Torniamo con questa rubrica ad affrontare un tema
ricorrente nel dibattito italiano sull’impresa sociale (qui trattato un anno fa).
Per come è
definita dalla legge (decreto 155 del 2006) l’impresa sociale è senza scopo di
lucro. Non può cioè distribuire profitti, pur avendo facoltà - e non potrebbe
essere altrimenti, in quanto impresa! - di registrarli a fine esercizio e di
utilizzarli per fini istituzionali: donazioni, investimenti, costituzione di riserve, ecc.
L’impresa
sociale “di legge” è dunque in tutto e per tutto assimilata agli altri enti
nonprofit disciplinati dal Libro Primo del Codice Civile: associazioni, riconosciute
e non, fondazioni e comitati. Ma come ricorderà chi ha seguito il confronto,
anche aspro, su quelle norme, non era affatto scontato che fosse così. C’era
chi, già dodici anni fa, sosteneva l’opportunità di disciplinare l’impresa
sociale proprio per colmare la differenza tra la vasta gamma di figure
nonprofit esistenti, e ben articolate per diversità di funzioni e
caratteristiche, e le nuove sensibilità imprenditoriali che allora si stavano
sviluppando sulla scia delle pratiche di “responsabilità sociale d’impresa” e
che meritano la possibilità di cimentarsi, con efficacia ed efficienza, nei
settori tradizionalmente riservati alle organizzazioni senza scopo di lucro.
Il tema è di rilievo
con riguardo tanto all’innovazione manageriale, di cui lo stesso terzo settore
ha bisogno, quanto a quella finanziaria, laddove nuovi rapporti tra imprese
attive nei settori di “utilità generale” e i mercati dei capitali possono svilupparsi
solo se ve ne sono le giuste condizioni normative e istituzionali. Questione
ben nota al movimento della cooperazione. Che può contare su una normativa ad hoc e tra distribuzione (limitata)
degli utili, ristorni, prestito sociale e figura dei soci sovventori ha potuto
finora sperimentare meglio e maggiormente i modi in cui coniugare strutture
imprenditoriali democratiche e le opzioni per attrarre gli investitori.
Non a caso,
forse, fu proprio uno dei pionieri della cooperazione sociale, Felice Scalvini,
ad esprimere allora la sua delusione sul decreto 155: «Anche il divieto
assoluto di distribuzione del valore generato attraverso l’attività d’impresa
risulta poco garantente e distorsivo. Poco garantente perché esistono
innumerevoli modi per aggirarlo; distorsivo perché può impedire di strutturare
forme eque e non speculative di remunerazione del capitale di rischio,
limitando così la possibilità di accesso delle imprese sociali ad un essenziale
fattore di produzione».
Impresa sociale
“di legge” e impresa sociale “di fatto” sono dunque accomunate in Italia dal
divieto di distribuzione dei profitti. Con l’eccezione, appunto, della
cooperazione. Che dell’imprenditoria sociale rappresenta pure la componente più
dinamica, cresciuta - e non sarà un caso - perfino durante la crisi. Il nostro
legislatore dimostra così di credere più nella visione filantropica di Henry
Hansmann (secondo il quale il non
distribution constraint è fattore di rafforzamento dei legami fiduciari,
premiando il nonprofit a discapito del profit) che in quella multistakeholder e cooperativa del
premio Nobel Elinor Ostrom. Nonostante la gloriosa storia
del movimento cooperativo italiano e l’evidenza dei fatti anche degli ultimi
anni.
Forse
un po’ di responsabilità di questa miopia politica è da attribuirsi alla stessa
cooperazione. Che non si è mai chiaramente espressa per offrire ai mondi ad
essa “limitrofi”, dalle associazioni alle altre imprese sociali, le opportunità
finanziarie garantite (giustamente) alle cooperative. Non è chiaro se per
spirito corporativo, difesa identitaria, limite di visione. Certo è che sembra
giunto il tempo di cambiare atteggiamento, mentre l’Europa discute di social innovation e social business initiative. Una battaglia di retroguardia su questi
temi non farebbe bene oggi né all’Italia né al nostro terzo settore. E neppure
alla cooperazione.
di Alessandro Messina (@msslsn)
in Profittevole, rubrica per Vita
settembre 2013