Dopo i primi tre mesi
di sperimentazione di Tassa sulle Transazioni Finanziarie (TTF), in Italia si
sono già scatenate le fanfare di banchieri e affaristi che la giudicano
“inefficace” e, dunque, suggeriscono senza il minimo imbarazzo, “da rimuovere”.
La cosa fa un po’
sorridere. Ma anche alzare le antenne. Proviamo a ricostruire il quadro.
La finanza è bestia
sempre più vorace. Si mangia l’economia reale, le politiche pubbliche, ogni
tentativo di redistribuzione fiscale. La finanza è la causa della più grande
recessione del secolo ma continua a registrare profitti a due cifre. A produrre
disuguaglianze, a speculare su ogni
fenomeno naturale o sociale, a condizionare le democrazie anche dei paesi a più
antica tradizione civica.
Ma c’è di
più. La finanza ha fatto perdere alle banche la bussola di operatori il cui
ruolo è fondamentale per lo sviluppo. Quella che era un’attività antica, nata ben
prima del capitalismo e con esso cresciuta, favorendo la crescita del risparmio
e dunque degli investimenti, è diventata attività di ripiego dell’industria
finanziaria, guardata dall’alto in basso da chi può in tre minuti netti e col
solo movimento del mouse spostare
miliardi di dollari da un paese all’altro, da un mercato all’altro, da uno
strumento finanziario all’altro. Guadagnando in pochi secondi ciò che migliaia
di operai strappano in un anno di lavoro a industrie globali dai comportamenti sempre
più padronali.
La finanza può fare
tutto questo - e molto di più - perché ha rotto gli argini e nessuno riesce a
ritirarli su. C’è una ricetta per fermarla?
La soluzione
migliore è colpire il meccanismo al cuore dei suoi interessi, rendendo meno
conveniente l’attività speculativa. Così nacque la proposta dell’economista
James Tobin di tassare gli scambi valutari che creano instabilità nei mercati
globali. Così i tanti movimenti che nel mondo promuovono la giustizia sociale chiedono
da decenni l’introduzione di una TTF. A lungo inascoltati.
Ma poi: nel
novembre 2009 il premier inglese Brown lancia l’idea, in dicembre il vertice UE
la riprende, nel maggio 2012 il Parlamento europeo esprime voto favorevole, in
ottobre un gruppo di undici paesi UE fra cui l’Italia dà il via ad una “cooperazione
rafforzata” allo scopo, nel dicembre nel nostro paese viene emanata la prima
normativa al riguardo (l. 228/2012).
Dal primo marzo di quest’anno si paga dunque
in Italia una TTF, che però ha forti limiti: lavora solo sul passaggio di
proprietà dei titoli e non sulla loro velocità (determinante per distinguere
tra speculazione e investimento), incide solo sugli scambi azionari (non
obbligazioni o titoli pubblici), dei derivati prende solo quelli su azioni (il
2,5% del totale per il nostro paese), lavora sul saldo netto giornaliero e non
su ogni transazione (dunque con logica contraria rispetto a quella che dovrebbe
penalizzare l’intensità e velocità degli scambi), è troppo morbido con le
operazioni ad alta frequenza (generate da computer in frazioni di secondi). E produce
grandi iniquità: tassa le azioni delle banche etiche cooperative e non le stock options dei CEO più pagati,
esclude le azioni delle piccole imprese quotate ma non quelle di pari
dimensioni che quotate non sono.
Se l’obiettivo della
TTF è - come deve essere - arginare i comportamenti speculativi per dare
stabilità ai mercati e togliere potere agli oligarchi della finanza globale, è
evidente che i derivati (oggetto del 98% delle transazioni finanziarie!) e perfino
i titoli pubblici devono starci dentro. Proprio a difesa dagli speculatori, che
devono trovare meno vantaggioso giocare con gli “spread”.
La TTF in salsa
italiana dunque è stata fatta proprio male. Forse non casualmente, così da dare
dopo soli tre mesi alle lobby dei finanzieri argomenti per chiederne la
cancellazione.
Invece la partita è
tutta da giocare. La TTF c’è e va difesa, per migliorarla e renderla così
strumento principe di un’azione di governo che rimetta lo sviluppo sociale al
centro delle scelte politiche.
di Alessandro Messina (@msslsn)
in Profittevole, rubrica per Vita
luglio 2013