Il
Monte dei Paschi di Siena (MPS) era considerato caso di eccellenza, all'interno
dell'industria bancaria, per le pratiche di responsabilità sociale d'impresa
(CSR).
Giustamente,
dopo il succedersi di scoop su contratti nascosti in cassaforte e bande del 5%,
qualcuno ha cominciato a domandarsi cosa significhi ciò e se si possa escludere
che "la crisi abbia ucciso la CSR".
In
particolare, il gruppo di Avanzi ha promosso un preciso
dibattito, contrapponendo efficacemente due posizioni polarizzate. Da un lato
Giovanni Pizzochero ha evidenziato come una strategia di CSR "ha senso se
include un principio di contemporaneità rispetto al business, se è integrata al
business, se è essa stessa business". Dall’altro Davide Dal Maso ha
battuto sulla relatività delle scelte di CSR, come il fatto che "darsi un
codice etico non vuol dire che tutte le regole in esso previste siano
immediatamente e completamente rispettate". Insomma salvando dei codici
etici soprattutto "l'obiettivo aspirazionale", che li accomuna - ha
argomentato con un esempio alto - alla Costituzione della nostra Repubblica,
pure segnata da tanti principi disattesi ma non per questo meno rilevante e di
valore. Poi Dal Maso ha rivendicato la consistenza delle buone pratiche di CSR condotte
da MPS ("non erano finte”), auspicando che la banca non le abbandoni proprio
ora che è in fase di ristrutturazione.
Il
tema è caldo. Nelle stesse settimane anche l'Economist (attraverso la sua
"Intelligence Unit") ha lanciato un dibattito
simile, dal titolo "La CSR non ha nulla a che fare con la
filantropia?". Il sondaggio on-line non ha lasciato dubbi: circa il 75%
degli oltre 480 commenti ricevuti ritiene che CSR e filantropia siano e debbano
essere distinte.
Da
entrambe le discussioni emerge la difficoltà di tracciare linee di demarcazione
precise tra comportamenti responsabili “accessori” al business e profili di
responsabilità “integrati” nel modello produttivo e organizzativo dell’azienda.
Credo che tornare ad alcuni classici dell'economia possa aiutare a interpretare
meglio la questione. Perchè i classici? Perché, anche senza scomodare Karl
Marx, tutti i grandi economisti del passato, da Smith a Mill, da Keynes a
Shumpeter - pur nelle loro diverse visioni e interpretazioni dei fenomeni
sociali - avevano ben presente il conflitto permanente, strutturale, che in
modo intimo caratterizza l'economia capitalistica. Conflitto tra capitale e
lavoro, tra produttori e consumatori, tra regolatori e imprenditori, che gli
ultimi trent'anni di appiattimento culturale - nelle prassi e nelle teorie
economiche - han cercato di far cadere nell’oblio. Si è così affermata una
visione fittizia della realtà. Che ora si va frantumando sotto i colpi della
crisi.
Non
a caso la CSR si è affermata quando il modello neoliberista “infallibile” ha
dovuto iniziare a fare i conti con conflitti meno facili da tenere a bada. Generando
in alcuni l’illusione di poterli gestire solo attraverso un po’ di vetrina e
qualche grant. Ovviamente non è così.
Ma la CSR non è morta. Il punto è come essa possa concepirsi e attuarsi in una
prospettiva che non rifiuti pregiudizialmente il conflitto immanente nel
modello capitalistico ma anzi da esso parta per coglierne tutte le potenzialità
di arricchimento dialettico. Il MPS di Mussari, come anche la sua ABI, si distinguevano
proprio per l’abilità nella (apparente) ricomposizione di conflitti tra le
parti sociali. La realtà si sta rivelando più complessa, mostrando che forse si
trattava solo di efficace e arguta gestione di poche corporazioni (sindacali,
datoriali, dei consumatori). Perché anche la CSR, come ogni processo
dialettico, non si fa da soli. E per farla funzionare servono stakeholder capaci
di interpretare al meglio il proprio ruolo. Forse è proprio da qui, dal ruolo
dei cosiddetti stakeholder troppo spesso assopiti sulle proprie poltrone, che occorre
ripartire per dare nuova sostanza alle pratiche di responsabilità sociale
d’impresa.
di Alessandro Messina (@msslsn)
in Profittevole, rubrica per Vita
aprile 2013