Cosa ne è dell’economia civile al tempo della grande crisi?
Certo occorre uscire dalle ambiguità. Nessuno può più confondere il grado di
civiltà di una economia con quella piccola porzione di pur ampi utili - chissà
come generati - devoluta ad opere filantropiche, come per anni è stata furbescamente
interpretata la CSR (responsabilità sociale d’impresa). Così come non basta la
matrice “senza scopo di lucro” a certificare la qualità sociale di certi
processi produttivi. O il termine cooperazione a indicare un’impresa diversa, “senza
se e senza ma”.
E’ tempo di uscire dalle banalizzazioni o anche dalle
segmentazioni di comodo, che facilmente in Italia prendono la strada dei
corporativismi, per comprendere la complessità di un’economia che possa essere
al servizio del bene comune. E che
sempre più necessita di soluzioni originali, costruite caso per caso, adattate
ai contesti locali, sociali, ma non per questo non industrializzabili e dunque
non efficienti.
E’ la frontiera dell’innovazione sociale, trasversale
rispetto alla natura societaria delle organizzazioni produttive (pubbliche,
private, profit o nonprofit). A Bertinoro è stato scelto il termine
“ibridazione” per evocarla. Richiamando alla mente il contributo di Jean Louis
Laville alla teoria dell’economia solidale, reinterpretandolo però non più come
contaminazione tra settori economici separati che agiscono in filiera (il
settore pubblico e il nonprofit) ma ad una vera e propria commistione di
processi e forme di organizzazione dei fattori della produzione che vadano
oltre gli steccati culturali tanto dell’impresa privata massimizzatrice di
profitto quanto dell’organizzazione filantropica buona in sé.
Insomma: non è più tempo di valutare l’utilità sociale di
una intrapresa economica solo sulla base della sua possibilità di distribuire i
profitti (spesso a prescindere dalla capacità di realizzarne), o semplicemente dal
suo assetto societario e di governance,
oppure dall’oggetto dell’attività svolta, dai soggetti che la promuovono, o
peggio ancora dall’abilità di comunicare le proprie buone intenzioni. La grande crisi, che è anche grande mutazione
di fini e mezzi al servizio dell’attività economica, ha messo a nudo tutte le
contraddizioni dei vecchi schemi.
In questi dieci anni abbiamo assistito ad almeno due grandi “tradimenti”.
Il primo è stato quello della richiamata CSR, la responsabilità sociale di
impresa. Che non è stata interpretata come processo di innovazione e
cambiamento organizzativo, ma solo come avanzata - a volte neanche troppo -
tecnica di marketing, pulizia più o meno approfondita dell’immagine aziendale.
Tradendo così i suoi migliori sostenitori, le tante politiche pubbliche di
sostegno che enti europei, nazionali , locali hanno promosso, i molti cittadini
e stakeholder (il termine forse più abusato in questo contesto) che ci hanno
creduto. Sgonfiati gli utili, spesso frutto di ardite e speculative strategie
commerciali, a danno di consumatori e ambiente, si è sgonfiata la CSR. Di cui è
rimasta solo una stanca convegnistica. Come ha dimostrato - per il comparto
produttivo in cui ciò è stato più eclatante, quello bancario - anche il Forum
CSR di ABI di poche settimane fa.
Il secondo tradimento del decennio è arrivato dal terzo
settore. Da quello spazio tra stato e mercato, cioè, che avrebbe dovuto essere
perno di un nuovo welfare, pronto a rispondere ad emergenti bisogni sociali e
al contempo capace di creare nuovi bacini occupazionali. Erano queste le idee
di Jacques Delors (Libro bianco della
Commissione europea del 1992), di Jeremy Rifkin (La fine del lavoro, 1995), dello stesso Laville (L’economia solidale, 1998) e di tanti
altri. Ma i dati presentati a Bertinoro mostrano un brutale rovesciamento di prospettiva:
per ogni posto di lavoro guadagnato nel terzo settore, cresciuto di oltre il
39% in due lustri, se ne sono persi quasi due (1,92) nel pubblico impiego. Per
di più, l’occupazione nonprofit è precaria per oltre il 30% dei lavoratori
(contro il 4% della pubblica amministrazione).
Vecchi fantasmi riemergono. Le paure di chi negli anni ’90
temeva la crescita del terzo settore come grimaldello per lo smantellamento del
welfare universalistico trovano argomenti quanto mai solidi. Mentre i lavori
nonprofit sembrano tutt’altro che “scelti”, come suggeriva un fortunato volume
di 15 anni fa.
Le prime vittime di questi tradimenti sono stati,
ovviamente, i “persuasi”, come avrebbe detto Aldo Capitini. Coloro che hanno
creduto in un’economia diversa e continuano a impegnarsi per realizzarla. Fra
loro, molti lavoratori e qualche imprenditore, determinati ancora oggi ad
abbattere steccati, a partire da quelli che abbiamo nella nostra testa.
Ecco perché è stato prezioso l’incontro di Bertinoro. Per
ritrovarsi, uscire dall’isolamento, e riprendere slancio. Da un nuovo
trampolino, quello dell’ibridazione.
di Alessandro Messina (@msslsn)
in Credito Cooperativo
novembre 2013