A poche organizzazioni
senza scopo di lucro è mai accaduto di essere sotto i riflettori come in queste
settimane ai partiti politici. Che per le definizioni internazionali sono a
tutti gli effetti enti del terzo settore. E dunque lo sono anche per l’Istat,
che si prepara ad analizzarne i dati in occasione del nuovo Censimento sulle
istituzioni nonprofit.
Circa dieci anni fa, dopo la prima rilevazione censuaria, scoprimmo che in Italia erano oltre 2.500 gli enti nonprofit attivi in politica, tutti con la forma di associazione non riconosciuta, la gran parte dei quali dichiarava di svolgere attività continuativa durante l’anno (86%) ed essere costituiti da meno di due lustri (84%).
Si trattava in
genere di enti mono-attività (78%), con basso impegno anche in iniziative
culturali e ricreative (20%). Dal lato risorse umane il profilo risultava riccamente
caratterizzato dalla presenza di volontari (162 mila), con una leva rispetto al
lavoro remunerato superiore a 77 volte. Dato che spiccava se confrontato con
quello medio di settore (5), delle attività culturali e ricreative (23) e
addirittura delle organizzazioni che fanno del volontariato la propria missione
(48). Viene il dubbio che oltre all’appeal
del fare politica, entrassero in gioco altri fattori.
L’84% delle
istituzioni politiche non aveva dipendenti e l’86% dichiarava entrate non
superiori ai 50 mila euro (vecchi 100 milioni di lire). Solo 82 enti (il 3%) avevano
entrate superiori ai vecchi 500 milioni di lire. Si tratta, è evidente, dei partiti
politici in senso proprio, di cui tutti gli altri rappresentano un arcipelago
di contorno: circoli, sezioni, associazioni di riferimento.
Concentrandosi
su questi 82 soggetti politici “core” si scopriva che le loro entrate
complessive (nel 1999) ammontavano a circa 221 milioni di euro (di allora),
ossia una media di 2,7 milioni a testa. Il settore si collocava così al quarto posto
in termini di “ricchezza” media delle organizzazioni più grandi tra i 25
censiti dall’Istat (in base alla classificazione internazionale sul nonprofit,
ICNPO). Dopo sanità, istruzione universitaria e filantropia. E ben prima di
assistenza sociale, ambiente, cultura, sport, ricerca, inserimento lavorativo,
ricreazione e socializzazione, ecc.
Insomma, un
posizionamento di tutto rispetto all’interno della galassia del terzo settore
italiano.
Era 13 anni fa.
Ciò che è accaduto nel frattempo lo possiamo solo intuire, in assenza di
statistiche ufficiali (ma anche ufficiose!), costanti e complete, su questa
particolare tipologia di enti. Alcuni dati elaborati dalla Corte dei Conti sono
comunque utili a disegnare una tendenza: nel 2008, soffermandosi sulla voce di
entrata relativa ai rimborsi elettorali, vediamo che l’importo complessivo
arrivava a 503 milioni di euro. Nel 1999, la quota pubblica di entrate del
nonprofit politico (il 38%) ammontava complessivamente a 101 milioni di euro. Un
incremento del 398%, stimato per difetto, a fronte di un’inflazione media negli
stessi nove anni pari al 23%.
Un altro dato di
interesse riguarda il modo in cui, nel 1999, venivano spese queste risorse: il
13% per il personale dipendente, il 48% per l’acquisto di beni e servizi, e ben
il 23% dedicato alla voce “altre spese”, molto al di sopra della media nazionale.
Rispetto alla
vasta letteratura economica in materia di funzionamento delle organizzazioni
nonprofit, saltano agli occhi forti incongruenze: una raccolta fondi non
trasparente, non rendicontata, senza connessione con i risultati raggiunti, va
alla grande. Proprio il contrario di quanto si racconta a chi è impegnato nel fund-raising
per finanziare progetti “reali”.
Una
particolarità chiaramente limitata alle istituzioni politiche. Che forse
proprio per questo, non solo nei comportamenti, ma anche nei programmi e nelle
“agende”, continuano ad ignorare il terzo settore.
Uno dei tanti
buoni motivi per aspettare con impazienza i risultati del nuovo Censimento
Istat sulle istituzioni nonprofit.
di Alessandro Messina (@msslsn)
in Profittevole, rubrica per Vita
febbraio 2013