Le commissioni applicate dalle banche sulle linee di finanziamento
sono state oggetto di un quasi casuale braccio di ferro tra
l’Associazione Bancaria italiana (ABI) e il Governo. “Quasi casuale”
perché, come noto, la norma (l’art. 27-bis del c.d. decreto
liberalizzazioni) è stata inserita in sede parlamentare da due deputati
che non son sembrati del tutto consapevoli dell’impatto che avrebbe
avuto. Successivamente alle dimissioni “di protesta” del Comitato di
Presidenza dell’ABI, i tre partiti politici che sostengono il Governo
hanno escogitato una soluzione tecnicamente compatibile con la necessità
di procedere speditamente con i decreti (un ordine del giorno) e il
Consiglio dei Ministri ha potuto emanare un nuovo provvedimento di
urgenza che è andato nella direzione auspicata dall’ABI.
Con il decreto
legge del 23 marzo 2012, dunque, la nullità delle commissioni bancarie
sui rapporti di fido è stata limitata solo ai casi di violazione della
normativa sulla trasparenza dei contratti, ribadendo un principio già
sancito nel Testo Unico Bancario. Inoltre, per rispondere alle
sollecitazioni delle associazioni imprenditoriali, il decreto ha
introdotto “un osservatorio sull'erogazione del credito da parte delle
banche alle imprese”.
Sulle commissioni bancarie il Parlamento ha
perso un’occasione. La norma era mal-scritta e in ogni caso andava
modificata. Ma non “neutralizzata”, come è stato fatto. Perché
perfettamente coerente, nella sua logica, con orientamenti ormai
ampiamente condivisi a livello europeo sulla trasparenza dei contratti
bancari e in particolare creditizi, cui anche la Banca d’Italia da tempo
si ispira. Il principio guida è che il costo del credito deve essere
rappresentato in modo semplice e sintetico nel tasso di interesse
praticato. Il cliente retail (consumatore o piccola impresa che
sia) non deve essere costretto a ricostruirlo attraverso calcoli
complicati e spesso impossibili da compiere preventivamente. Il caso
della messa a disposizione di fondi può ugualmente trovare soluzioni che
ne quantificano un prezzo sull’eventuale accordato, che potrà essere diverso o uguale a quello dell’utilizzato.
I modelli economici e di pricing che si possono applicare sono molti e
quasi tutti potrebbero migliorare la trasparenza del sistema attuale.
Anche
perché resta un problema reale di concorrenza. Come ha scritto Carlo
Milani sul sito www.lavoce.info, «negli ultimi mesi il 75 per cento
delle Pmi italiane ha registrato un incremento dei tassi d'interesse,
mentre per quasi il 65 per cento sono aumentate le commissioni bancarie
applicate sui finanziamenti. Per quanto riguarda le famiglie, dal 2010
sono pressoché raddoppiate le commissioni bancarie applicate sui mutui
immobiliari. Stesso discorso si può fare per il credito al consumo. E
sono costi che crescono più in Italia che negli altri paesi europei».
Milani sa di cosa parla, avendo per dieci anni prodotto questo tipo di
dati proprio dall’interno del Centro studi ABI.
Le banche non
hanno tutti i torti quando lamentano l’eccesso di regolamentazione cui
sono sottoposte: due interventi a settimana negli ultimi cinque anni
sono una follia. Anche perché si tratta spesso di interventi maldestri,
disorganici, a volte ispirati dagli impeti populistici di un ceto
politico lontanissimo dalla cultura della concorrenza e del libero
mercato. Come fu nel caso degli Osservatori prefettizi del credito
voluti dal precedente esecutivo e dimostratisi un flop totale. Come è
oggi con l’idea malsana di un Osservatorio nazionale sul credito.
Il
mercato bancario ha bisogno di più concorrenza, non di forme equivoche
di dirigismo. Altrimenti si continuerà a ripetere questo insensato
inseguimento tra norme irrazionali e compensazioni corporative. Il cui
costo diretto grava su chi accede al credito e quello indiretto,
difficile da quantificare ma indubbio, è pagato dal Paese in termini di
forte arretratezza dell’infrastruttura creditizia e finanziaria.
di Alessandro Messina
per Sbilanciamoci.info, 5 aprile 2012