Auguri CAE…

Nasce la Città dell’Altra Economia. Dunque l’inaugurazione c’è stata. Andava fatta il 29 settembre, contro ogni realistica previsione, e così è stato. Una lunga corsa, irta di difficoltà sia per la sua durata sia per il percorso scelto, trova una prima sosta. Si tratta di una buona occasione per riprendere fiato e capire come gestire il prossimo tragitto. Ma andiamo per ordine.

La propulsione del progetto è venuta da un piccolo gruppo di organizzazioni romane di base. Non dal “grande” terzo settore - che in verità a Roma è sempre stato assai minuto, per dimensioni economiche ma anche per capacità politiche - ma dalle fragili botteghe del commercio equo e solidale, dalle associazioni culturali delle periferie, che si sono trovate in poco tempo (poco in relazione alle proprie capacità progettuali e organizzative) a gestire un’opportunità rara e importante. Era l’inizio del 2003.Eravamo il popolo dei “social forum”, che cercava l’altro mondo possibile, che non poteva essere raggiunto senza passare - sembrava ovvio - per un’altra economia. Molti di noi erano stati a Genova. Qualcuno le aveva pure prese. La carica utopica era intensa. Si perseguiva un progetto di reale cambiamento.

La politica inseguiva questi movimenti - che sembravano l’astro nascente della società italiana - e solo così è accaduto che un neofita della nomenclatura romana, Luigi Nieri, giocando di astuzia e abilità, è riuscito a portare il disincantato Veltroni ad assecondare la richiesta di uno “spazio permanente” per l’altra economia a Roma. “Ma nun me fate il centro sociale” ha ribadito più volte il sindaco, che non ha mai smesso di parlare di “mercato equo e solidale”, annacquando sapientemente il carattere radicale di buona parte dei contenuti della proposta. L’immagine che più spesso ha proposto alla stampa Veltroni è stata quella della massaia di Testaccio che trova - tra le opzioni di spesa quotidiane - il verduraio biologico.

Ma le associazioni riunite nel Tavolo dell’Altra Economia sono state al gioco. Sapevamo, tutti, che non aveva senso stare a tagliare il capello in quattro. “Ognuno la vedrà a modo suo - ci dicevamo - ma ora è importante riuscire a realizzare il progetto”. E certo resta un fatto che Veltroni ha avuto la lungimiranza di non opporsi all’idea. C’è da chiedersi chi altri lo avrebbe sostenuto (certo non Dominici o Cofferati…).

E’ così iniziata una lunga cavalcata di riunioni, discussioni, ipotesi di fattibilità economica, modalità di gestione, selezione dei candidati e così via. Chi siamo? cosa è l’altra economia? chi ha diritto di stare nel progetto? e che doveri ha nei confronti degli altri? Non sempre tutto è stato liscio ma si è andati avanti. Nel mio ruolo di responsabile amministrativo del progetto (dal maggio 2004 al giugno 2007) ho a volte tirato per i capelli decisioni che stentavano a venire. Me ne sono sempre assunto le responsabilità, qualche volta anche entrando in conflitto con quel mondo a cui sento di appartenere. Sono tuttora convinto di non aver sbagliato. La cosa più difficile è (ancora) evitare che un progetto su cui il Comune ha investito tanto (circa 5,5 milioni di euro) droghi la capacità di auto-organizzazione delle piccole realtà che invece devono cogliere l’occasione per crescere e mantenere la propria ricchezza di contenuti e identità “altra”.

Lo scontro più forte, sia tra il Comune e le organizzazioni, sia tra le stesse, direi che ha finora riguardato il modello di gestione. Dal canto mio ho sempre palesato l’esigenza di chiedere un salto di qualità professionale a chi si troverà a gestire questi splendidi spazi. I quali, tra l’altro, hanno un valore di mercato, di potenziale commerciale, notevole. Vedo in questo l’elemento centrale della riuscita del progetto: un’altra economia ha bisogno di grandi capacità gestionali, di professionalità elevate, di competenze e creatività. Come sempre, per fare meglio del capitale, bisogna essere più bravi dei capitalisti: valorizzare relazioni personali e reti fiduciarie oltre che quelle monetarie, mai però sottovalutando queste ultime; utilizzare strumenti organizzativi avanzati, dall’open source alle monete complementari, senza mai dimenticare quelli già esistenti, perchè dagli altri - anche i cattivi mercanti - c’è sempre da imparare.

Qualcuno ha letto tutto questo come una deriva aziendalistica (Bruno Amoroso su Carta). Io resto dell’idea che sarebbe pericoloso sottovalutare il rischio di fallire nella gestione di questo progetto. E se non si può fallire, allora bisogna essere molto dotati di capacità (anche tecniche), forse più di quante ne servano oggettivamente. Oggi finalmente si è costituito il consorzio che - in un prossimo futuro - potrebbe andare a gestire l’intero progetto. Finché ciò non avverrà resta in piedi il modello “incubatore”, con i suoi limiti e i suoi pregi, che mi sentirei di consigliare anche a chi dovesse ripetere l’esperienza in altre città: è servito a sbloccare un processo dal basso che si era arenato, a favorire la ricerca di nuove convergenze tra le organizzazioni, di dare il tempo alla fase costituente di maturare.

Consiglierei al neonato consorzio di non aver fretta a fare la sua richiesta di concessione al Comune. La modalità incubatore consente a tutti gli operatori coinvolti di mettersi alla prova in una condizione protetta e può aiutare l’aggregazione a prepararsi al meglio al momento della piena autonomia.

L’anticipo dell’apertura al 29 settembre non aiuterà. L’unico vantaggio - lo hanno notato tutti - sarà per Veltroni e le sue primarie. Ma la struttura non è pronta. L’area del Mattatoio ancora meno. Le organizzazioni idem. Se tutto va bene si andrà a regime all’inizio del 2008. E comunque ci si scontrerà con un cantiere di grandi dimensioni tutt’intorno.

Insomma, il ruolo di apripista, che già è costata tanta fatica, continuerà a richiedere sacrifici e investimenti significativi a tanti. Ma non è difficile valutare come questo fosse il prezzo da pagare per ottenere il progetto. Al di là di ciò, è giunto il momento di capitalizzare il grande lavoro fatto. Un progetto unico in Europa. Una buona pratica che già viene imitata da altre città italiane (Venezia). Un luogo che deve essere di sperimentazione e forte innovazione nelle relazioni economiche e monetarie. Per dare valore a tutto questo è necessario rilanciare - puntando in alto - il ruolo culturale della Città dell’Altra Economia, il suo voler sperimentare - e ribadirlo - un altro modello di sviluppo, un’altra idea di qualità della vita, la sua sfida al neoliberismo. Oggi più che mai. Oggi che i movimenti sono in crisi, che la sinistra fatica, che ogni idea anche vagamente redistributiva o di attenzione alla società prima che all’economia viene tacciata di scarso pragmatismo.

E se il sindaco di Roma all’inaugurazione dell’Città dell’Altra Economia non rinuncia a dire che bisogna conciliare crescita e “altra economia”, è il caso di spiegare - con una efficace gestione di questi spazi - a lui e al resto delle persone che ci guardano che la crescita che vogliamo è quella dello sviluppo umano, del risparmio energetico, delle condizioni di vita nel sud del mondo, dell’accesso ai beni comuni. Oggi, mentre il governo varava la sua proposta di finanziaria, la Città dell’Altra Economia veniva inaugurata. Nessuno ha collegato i due eventi. Eppure, forse, un legame simbolico c’è. Perché un giorno si potrebbe arrivare ad una legge di bilancio dello stato basata su un’altra idea di economia. Utopia? Lo era anche quella del gennaio 2003. E’ la sfida che dobbiamo raccogliere.

 
Alessandro Messina

Pubblicato su Carta, settembre 2007