I blockchain in nome di una finanza etica

La Banca Mondiale stima che, nel 2017, il 69% della popolazione globale, pari a 3,8 miliardi di persone, aveva un conto presso un’istituzione finanziaria o un provider di servizi mobile. Con un aumento di 7 punti percentuali dal 2014. In questo periodo, più di mezzo miliardo di persone ha aperto un conto, spesso via telefono cellulare. Solo in Africa, tra il 2014 e il 2017, sono stati più di 70 milioni di adulti.

Gran parte di questo progresso è dovuto al ritmo accelerato di innovazione tecnologica, che aiuta a ridurre i costi di transazione e semplificare il processo di creazione e apertura di un conto di pagamento, anche appoggiandolo su applicazioni completamente fuori dal mondo bancario (caso di M-Pesa).Il tema ha profonde implicazioni per lo sviluppo economico: senza accesso ai servizi di pagamento di base, è improbabile che le persone abbiano accesso al credito. E senza credito, c’è meno commercio, meno investimenti, meno istruzione e meno posti di lavoro.

Scriveva nel gennaio scorso la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI): “una conseguenza dell’esclusione finanziaria dai pagamenti è che potrebbe portare all’aumento di pagamenti ombra.” Cioè, se le persone non possono effettuare pagamenti attraverso i sistemi convenzionali, cercheranno altre strade, informali, non regolamentate, forse illegali, come le associazioni di risparmio, le piattaforme peer-to-peer o le criptovalute.

Qui entra in campo la tecnologia blockchain, le sue potenziali applicazioni per il mondo bancario, il senso del progetto Libra lanciato da Facebook.Quest’ultimo rappresenta un vero e proprio salto evolutivo nell’offerta in campo finanziario dei cosiddetti big tech (Alibaba, Alphabet, ecc.). Finora, infatti, essi si sono ingaggiati in tali servizi in modo relativamente marginale: ne traggono “solo” l’11% dei ricavi totali. Per di più le piattaforme di pagamento oggi offerte sono in larga parte direttamente dipendenti dal circuito bancario (si affidano a infrastrutture di terze parti, quello delle carte di credito, come nei casi di Apple Pay o Google Pay). Oppure lo sono indirettamente, laddove gli utenti possono effettuare pagamenti che sono elaborati e regolati su un sistema di proprietà (ad es. Alipay, WePay), ma devono pur sempre richiedere un conto bancario o una carta di credito/debito per incanalare i soldi in entrata e in uscita.

Di fatto, finora, i grandi attori globali della tecnologia hanno ancora avuto bisogno delle banche per completare il ciclo delle transazioni attivate attraverso le piattaforme o i market place gestiti.

Con Libra criptovaluta creata, gestita e regolata in autonomia da Facebook e i suoi partner – potrebbe non essere più così. In tale prospettiva, l’iniziativa di Zuckerberg rappresenta una vera e propria sfida al modello banco-centrico su cui si basano secoli di politiche pubbliche e intere biblioteche di teorie economiche e finanziarie.

Ma non deve sorprendere più di tanto. Una recente indagine della stessa BRI ha evidenziato un diffuso orientamento positivo delle banche centrali rispetto alla ipotesi di emissione di valute digitali, come strumenti per ampliare l’accesso finanziario. Molte banche centrali, non solo nei paesi emergenti, hanno dichiarato di reputare importante una simile iniziativa per: rafforzare la sicurezza nei sistemi dei pagamenti, aumentare l’efficienza complessiva, la stabilità, l’inclusione finanziaria.

Insomma, Libra potrebbe suonare la sveglia alle banche centrali di tutto il mondo. Per una volta, chissà, questa ennesima competizione tra grande capitale e regulator potrebbe giocare a favore di processi di maggiore sviluppo e inclusione finanziaria.

Articolo apparso su il manifesto del 10 luglio 2019