Avvertenza:
questa potrebbe essere la più dissonante tra le schede sulle professioni
sociali inserite nel libro. Perché la finanza è, in sé, la cosa meno sociale
che esista. Perché la finanza etica è qualcosa di indefinito e che si presta a
tante furbe strumentalizzazioni o sbagliate interpretazioni. Perché quando si
fa bene la finanza etica, tutto sommato non si cambia molto del mondo che ci
sta attorno (e anche quando accade, il processo è talmente lento che
difficilmente se ne ha la percezione).
Se dunque siete
attratti dal sociale perché vi piace aiutare il prossimo in modo concreto e
avere un riscontro diretto delle vostre azioni, il consiglio è di passare alla
prossima scheda. Se invece decidete di proseguire nella lettura, vuol dire
proprio che siete tra quei visionari che, non tollerando più la prepotenza
della finanza che ha pervaso ogni angolo delle nostre vite, pensano che si
possa far qualcosa di incisivo, anche con piccoli gesti quotidiani, per
invertire questa tendenza.
Centocinquant’anni
tra ideali socialisti e obiezione monetaria
La finanza etica
in Italia ha ormai una lunga storia.
Se la guardiamo
con gli occhi della finanza “dal basso”, cooperativa e mutualistica risposta
all’usura e all’esclusione dal credito e dal risparmio, si tratta di oltre un
secolo e mezzo. Nel 1864, infatti, nasceva la prima banca “popolare”,
cooperativa ispirata da ideali di mutuo aiuto, di stampo socialista e liberale.
Da allora il movimento cooperativo in finanza si è esteso molto, fino a
rappresentare oggi quasi un terzo del sistema creditizio nazionale, grazie alla
crescita delle banche popolari e alla diffusione (anch’essa antica, risalente a
131 anni fa) delle “cugine” Banche di Credito Cooperativo, a matrice però più
localistica e reticolare (le vecchie Casse Rurali e Artigiane, oggi BCC).
Un’altra
prospettiva è più recente, meno legata ai bisogni primari delle persone e dei
territori e più ad una contestazione del modello di sviluppo e dell’economia
capitalistica (finanza critica). Nasce così la necessità di sottrarre il denaro
alla gestione delle banche e riappropriarsene per restituirgli utilità. Siamo
nel 1978 e in Italia si comincia a parlare di “obiezione monetaria” e di
“autogestione finanziaria”. E’ il tempo delle MAG, mutue auto gestione (la
prima è a Verona), che crescono in parallelo alle esperienze di volontariato,
al terzo settore, al commercio equo e solidale.
Fino ad arrivare
al 1993, con l’arrivo del Testo Unico Bancario (TUB), la privatizzazione delle
grandi banche pubbliche, la conseguente istituzione delle fondazioni bancarie,
la liberalizzazione del mercato creditizio. L’insieme delle nuove regole e la
crescita del cosiddetto terzo settore, indotta dal processo di privatizzazione
del welfare e dalla crisi del fordismo, portano i pionieri di allora a darsi
l’obiettivo di dotarsi di una banca “alternativa” per sottrarre il denaro ai
cattivi circuiti (speculativi, che finanziano produzioni sbagliate, dalle armi
agli inquinanti) e dirigerlo verso quelli meritori (l’ambiente, il
volontariato, quell’economia solidale che il credito ordinario non conosce e
non finanzia). Così nel 1999 nasce Banca Popolare Etica, incrocio tra le
istanze del movimento dell’autogestione finanziaria e un nuovo mutualismo
diretto a soddisfare un bisogno concreto: Banca Etica è la banca “del terzo
settore” per il terzo settore.
Dal 2007, con lo
scoppio della grande crisi, di matrice tutta finanziaria, si sono ridotte le
istanze ideali e sono tornate prepotentemente attuali le esigenze primarie. Ciò
che si cerca di più è una “finanza utile”, che consenta l’accesso al credito
alle famiglie e alle piccole imprese, che rimetta il denaro al servizio
dell’economia reale e dell’occupazione, che non consenta a pochi manager di arricchirsi speculando su
strumenti finanziari dagli algoritmi incomprensibili (i derivati) o dirottando
i risparmi verso transazioni istantanee puramente virtuali (high-frequency trading). Si cerca una
finanza sobria, vicina ai territori, ancella dello sviluppo e non suo despota.
Di fronte alle crescenti difficoltà di accesso al credito di nuove e sempre più
ampie fasce di popolazione si diffondono e crescono le pratiche di
microcredito. Le nuove tecnologie aiutano la nuova declinazione di un’autogestione
finanziaria che ora passa per il web,
il social lending, e la finanza
cooperativa o popolare diventa crowdfunding.
La noia, e i
rischi, del fare finanza etica
Qualche anno fa,
quando ancora era all’apice del settore bancario, di cui era considerato il manager più capace, Alessandro Profumo soprese
una platea di studenti dichiarando che “lavorare in banca è noioso”. Non aveva
torto. E la considerazione vale anche per la finanza etica. Che, comunque la si
guardi, significa fondamentalmente acquistare e rivendere denaro. Se non siete Ebenezer
Scrooge è difficile trovarlo divertente.
Per fortuna nella
finanza etica c’è qualcosa che va oltre. È, o dovrebbe essere, la permanente
tensione verso la ricaduta concreta, diretta, delle operazioni realizzate nei confronti
degli obiettivi sociali che ci si è dati. Qualcuno parla anche di impatto. Che però
non sempre è così visibile. Un conto è una pratica di affidamento, con la quale
prestiamo denaro a soggetti cui con tutta probabilità altre banche non
avrebbero dato alcuna fiducia. Vediamo con i nostri occhi l’effetto prodotto da
quel prestito, possiamo seguirne le evoluzioni nel tempo, gestirne le relazioni
che ne derivano.
Altro è un
bonifico, la gestione di un dossier titoli, la profilatura antiriciclaggio della
clientela, eccetera.
Qui si fanno i
conti con due grandi temi che ormai condizionano l’attività di qualunque
operatore finanziario. Il primo tema è la compressione della redditività, oggi
patita anche dalle banche ortodosse e frutto di aspetti tanto esogeni (il
livellamento dei tassi di interesse) quanto endogeni (il modello
imprenditoriale della banca che appare non più adeguato agli assetti
dell’economia e della società e che arranca nel seguire il dirompente sviluppo
delle tecnologie). Qualunque impresa ha il problema della sostenibilità
economica. Un tempo per gli intermediari finanziari non era così. Oggi sì,
anche (soprattutto) per quelli di finanza etica.
L’altro tema
critico deriva dalla rilevante funzione pubblica svolta dalla finanza, che per
questo è giustamente sottoposta ad una forte attività di controllo e
regolamentazione da parte delle autorità di vigilanza (Banca d’Italia, Consob,
Antitrust, Ministero dell’Economia, Banca Centrale Europea, Autorità Bancaria
Europea tra le principali). Si calcola che dall’inizio della crisi vi siano
stati due nuovi provvedimenti al giorno tesi a modificare i comportamenti delle
banche e degli intermediari finanziari. Questa complessità e intensità di
regole vale per le grandi banche, per le multinazionali della finanza ma anche
per i piccoli operatori cooperativi, quelli del microcredito, le MAG e la Banca
Etica.
Così, una buona
dose dell’entusiasmo, dell’energia, delle competenze che animano queste realtà
controcorrente viene spesa giocoforza per stare a galla - adempiere le regole
(essere compliant) - piuttosto che per andare con
determinazione verso la direzione ricercata. Con il rischio di trovarsi in
trappola. E di cadere nel paradosso dell’isomorfismo organizzativo, ben noto a molte
istituzioni nonprofit: costretti a
rispettare regole pensate e scritte per banche tradizionali, gli operatori
alternativi si conformano progressivamente alle stesse logiche e col tempo
perdono la propria capacità di essere agenti di cambiamento.
Rigore ed
efficienza contro sofismi morali e filantropia
Quali gli
antidoti? Di sicuro, come per ogni attività a scopo sociale e ancor di più per
quelle ad effetto indiretto, sarà importante trovare metodi e strumenti di
misurazione dei risultati prodotti. Per verificare l’effetto che fa il proprio
lavoro, per renderne conto a soci, risparmiatori, destinatari dei finanziamenti
e tutti gli stakeholder, per aggiustare costantemente il tiro dell’operatività.
Oggi che tanto
si parla di finanza d’impatto, grande calderone in cui i “buoni” fanno
confluire la finanza etica e i “cattivi” le grandi banche d’affari che
finanziano lo smantellamento dei servizi pubblici, la partita della misurazione
si fa ancora più agguerrita. Presto, con i loro potenti centri studio e mezzi
di comunicazione, i colossi mondiali della finanza sapranno “raccontare” anche
ciò che non fanno (o fanno poco, e virtualmente), avendo speso tempo e denaro a
costruire indicatori, griglie, benchmark… La finanza etica più pura, impegnata
nel quotidiano a fare il proprio mestiere, potrebbe essere spiazzata da questa
controffensiva. Una ragione in più per attrezzarsi rapidamente e in modo
adeguato.
Vi è poi la
necessità di mantenere un presidio organizzativo dell’attività finanziaria
sempre appropriato rispetto agli obiettivi sociali. Dare valore alla relazione
con le persone deve essere parte concreta del processo di gestione dei clienti.
Eclatante nella valutazione del merito di credito, che deve incorporare e saper
trattare elementi qualitativi (la soft
information) che possono emergere solo dalla conoscenza e dalla relazione
diretta, tale aspetto è altrettanto importante nella collocazione di prodotti
di risparmio, dove non basta l’adempimento di una tanto corposa quanto inutile
(perché solo formalistica) procedura Mifid, ma serve veramente la capacità di
comprendere le esigenze della persona e consigliarla al meglio rispetto ai suoi
bisogni. In questo ambito è fondamentale uscire dalla retorica della finanza
etica, di chi pretende di declinare la propria diversità solo nella narrazione
di sé e in un approccio moraleggiante, dunque soggettivo e personale, e
sviluppare invece modelli e procedure coerenti, oggettivi, in grado di andare
oltre la sensibilità delle persone e dei singoli operatori e di contribuire
alla crescita e alla replicabilità delle migliori esperienze.
Altra trappola
da evitare è quella della filantropia. In un paese a basso civismo come
l’Italia, la cultura della concessione dall’alto è ancora assai più forte di
quella della responsabilità e dell’equità. Così qualcuno confonde la proposta
della finanza etica con quella di una finanza a dono, caritatevole, che è altra
cosa. L’idea sottostante un prestito deve sempre essere la valutazione della
capacità prospettica di restituzione da parte del prestatario. E il costo equo
dello stesso credito deve essere tale da garantire all’impresa di finanza etica
di continuare ad operare nel tempo. Il successo della sua proposta infatti
dipenderà dalla durata negli anni della propria azione più che dall’immediata
economicità dell’offerta.
Ma ciò è dannatamente difficile da comprendere, a
volte per gli stessi operatori, troppo spesso per la clientela. In qualche modo
siamo tutti vittima della mentalità mercantile e ci sentiamo furbi quando
applichiamo gli stessi canoni di giudizio (anche se poi ci indigniamo quando
qualcuno li applica a noi).
Ne deriva che l’attività
del finanziere etico non può mai dissociarsi da una sana e praticata educazione
all’economia critica e alla consapevolezza dei guasti prodotti dal sistema
capitalistico. Altrimenti, lentamente ma inesorabilmente, l’operatore
alternativo tenderà all’omologazione e finirà per andare in crisi, di mission prima (perdita di senso rispetto
agli obiettivi iniziali) e di business poi (trovandosi a competere sul terreno
tipico della finanza senza averne i mezzi e i presupposti culturali e
professionali).
Contaminarsi e
fare rete unica ricetta possibile
Dove si impara
tutto questo? Innanzi tutto osservando le pratiche migliori e consolidate. Tra
queste vi sono certamente alcune storiche esperienze, come le già citate MAG (Reggio
Emilia e Verona su tutte), o alcuni innovatori come PerMicro. Banca Popolare
Etica resta il modello di banca alternativa, ancora insuperato in Italia,
seppur in evoluzione, insieme al settore che è nata per servire (il nonprofit).
L’invito è anche a conoscere da vicino le più diffuse BCC, realtà che ancora
oggi possono positivamente sorprendere per la dimensione artigianale del fare
banca associata alla complessità dei prodotti offerti, frutto della grande rete
di cui fanno parte (che - merita di essere ricordato - in aggregato rappresenta
il terzo operatore bancario nazionale).
Questa è la
“crema” della finanza etica italiana. Che si arricchisce poi di singole ed
estemporanee iniziative di grandi gruppi bancari, da guardare con la giusta
diffidenza ma sempre da valutare in base a criteri oggettivi, e di piccolissime
esperienze, come quelle delle Fondazioni anti-usura, degli operatori non
professionali di microcredito (uniti in RITMI), delle organizzazioni
mutualistiche per l’accesso al credito (cooperative e consorzi fidi). Senza
dimenticare gli esperimenti più di frontiera, come quello di CAES, consorzio di
cooperative sociali e associazioni che prova a dare una dimensione etica anche
al mercato assicurativo, o la rete degli Impact Hub, network di innovatori che
lavorano per mettere la finanza al servizio dell’innovazione sociale.
Al pari di tutte
le materie eterodosse, anche la finanza etica non entra nelle università e nei
corsi di specializzazione post-laurea. È una pratica eretica, e come tale si
alimenta di imitazione, scambio di buone prassi, modalità reticolari di
collaborazione per supplire alle piccole dimensioni e al rischio di
inefficienze economiche che esse implicano. Ma non deve mai smettere di cercare
la contaminazione tra il nuovo che sperimenta e il vecchio che ha solide
radici. È a questa apertura verso gli altri, con la consapevolezza della
propria diversità, che l’operatore di finanza etica orienta il suo
comportamento quotidiano. Per cambiare lentamente le ingiustizie dell’economia.
Svolgendo con pazienza un lavoro inevitabilmente noioso.
Letture
consigliate
www.finansol.it
La finanza utile, di Paolo Andruccioli e
Alessandro Messina, Carocci, 2007
Dizionario di microfinanza, a cura di
Giampietro Pizzo e Giulio Tagliavini, Carocci, 2013
di Alessandro Messina
articolo pubblicato in "Lavorare nel sociale. Una professione da ripensare"
a cura di Giulio Marcon, Edizioni dell'asino, 2015
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