Inchiesta sulla finanza d'impatto (impact finance). Seconda puntata


Nel mondo della finanza d’impatto, come visto, si muove un manipolo di pionieri guidati da visione coraggiosa e motivazioni sincere, oltre che variegate. 

Sono finanzieri pentiti, o forse solo annoiati. Sono operatori della microfinanza che hanno deciso di crescere o che han capito l’importanza di stare anche a monte del processo finanziario (la raccolta delle grandi masse di denaro). Sono quelle componenti della finanza popolare, o sociale, o “utile”, che spesso partendo dalla forma banca - ormai in profonda crisi - sperimentano nuovi modelli di intervento per raggiungere i propri obiettivi.

Il panorama è vasto. E va riconosciuto, stimolante e promettente. Ma ancora - in termini relativi - assolutamente esperienziale, a livello di pura testimonianza, microscopico se rapportato ai numeri della finanza. Come è normale per un processo in fase sperimentale, dunque fragile per definizione.


Ma gli operatori dell’impact finance non sono solo questi simpatici e concreti utopisti. C’è anche dell’altro. Ed è qui che l’ambiguità e la spinosità della questione prende piede.

Il primo studio di un certo rilievo sugli investimenti di impatto è stato realizzato da JP Morgan, leader mondiale nei servizi finanziari, sul finire del 2010[1]

In quel documento, si afferma che “in un mondo nel quale le risorse pubbliche e quelle private nonprofit (filantropiche) sono insufficienti per affrontare i problemi sociali globali, la finanza d'impatto offre una nuova alternativa verso cui indirizzare i capitali privati di grandi dimensioni” (nostra traduzione). E può farlo, spiega il rapporto, nei modi tipici della finanza: in forma di debito, di capitale, di “seed” o “venture” (investimenti cioè più rischiosi perché effettuati in fase di avvio di un'impresa). Sempre facendo attenzione ad avere un ritorno finanziario, oltre che un impatto sociale o ambientale. 

Nel rapporto di JP Morgan si specifica anche che sono almeno tre gli approcci finanziari degli operatori di impact (rilevati secondo un'intervista a campione): chi si aspetta una redditività maggiore della media del mercato (sul filone dei fondi etici di investimento e del loro ormai sperimentato sovra-rendimento nel medio termine[2]); chi si aspetta di dover affrontare un trade-off (ossia uno scambio, un bilanciamento) tra performance finanziaria e sociale, investimento per investimento, progetto per progetto; chi dà per scontato di dover rinunciare ad una quota del proprio rendimento finanziario medio atteso (approccio più filantropico, da finanza “a devoluzione”).


Interessante (e illuminante) è la definizione dei settori che secondo JP Morgan costituiscono l'area di business dell'impact finance: agricoltura, acqua, abitazioni, istruzione, sanità, energia e servizi finanziari di base. Si disegna un perimetro chiaro, quello tipicamente al centro dell'infrastruttura di una società e di una economia, di solito oggetto di forte intervento pubblico, almeno nei paesi a significativa tradizione democratica. Poco c'entra la filantropia (nel macro). Nulla c'entra l'innovazione (di processo o prodotto). A meno che non si voglia andare a ruota della convegnistica che nel mondo definisce innovativo un singolo prodotto finanziario che introduca un algoritmo o una clausola alternativa alla prassi dominante.


Nei fatti, e leggendo il tutto nella prospettiva dell'Europa, del G8, dei paesi OCSE, cioè delle democrazie avanzate, si sta esplicitamente (e ulteriormente) circuendo i residui campi di intervento degli stati, e delle democrazie, per creare al loro interno dei nuovi spazi di mercato.


E' una partita aperta. Che JP Morgan, a nome e per conto della grande finanza, affronta fuor di ogni ipocrisia, elencando già nel 2010 gli spazi di mercato intravisti: un potenziale di investimento nel decennio per oltre 1.000 miliardi di dollari, con profitti attesi superiori ai 750 miliardi di dollari. 

La stima è relativa soltanto agli investimenti da effettuare nei paesi emergenti e verso target a basso reddito, sotto la soglia della cosiddetta BoP (cioè alla Base della Piramide sociale), calcolata in 3.000 $ annui di reddito pro capite. Considerando ciò e tenendo insieme la necessità di avere risultati misurabili (in tempo ragionevole) e ritorni finanziari “mediamente adeguati”, non sorprende dunque che più dell'85% del potenziale profitto si riferisca al comparto dell'housing, il 12% ai servizi finanziari di base (microfinanza), solo l'1,5% all'istruzione, e pochi spiccioli ad acqua a sanità.


Nel suo ultimo report, di gennaio 2013[3], JP Morgan riconosce che le dimensioni del mercato della finanza d'impatto sono ancora ben inferiori a quanto previsto: attraverso una survey condotta sugli operatori, scopriamo che il loro investimento è stato pari a 8 miliardi di dollari nel 2012 e quello previsto per il 2013 era di 9 miliardi. 


L'occasione è utile anche per capire meglio chi sono questi operatori, almeno quelli presi in considerazione nella ricerca: il 52% sono gestori di fondi, l'11% sono fondazioni, un altro 11% è rappresentato da fondi pensione e compagnie assicurative, le banche o società finanziarie sono l'8%. Rispetto all'area geografica di appartenenza, la parte del leone la fa il Nord America (il 56% degli operatori risiedono tra Usa e Canada), mentre l'Europa è al secondo posto (27%).


Ribaltata è la geografia dell'impact finance rispetto all'area di destinazione degli investimenti: il 34% degli operatori dichiara di concentrarsi sull'Africa Sub-Sahariana, il 32% su America Latina e Caraibica, il 27% sull'Asia, orientale e meridionale. Ma c'è anche un 32% che si focalizza su Usa e Canada e un 13% sull'Europa continentale (la somma non fa 100 perché era possibile selezionare più risposte).


Per chi opera nei mercati emergenti, i settori più interessanti sono la filiera agroalimentare (63%), la microfinanza (59%), la sanità (51%), l'istruzione (47%), l'housing (43%), l'energia (35%). Mentre, a conferma del basso spirito innovativo, per gli investimenti destinati alle economie avanzate, in testa vi sono istruzione e sanità (entrambe scelte dal 52% degli operatori). Le “altre” attività , nelle quali rientrano gli ambiti più tipici del nonprofit europeo (cultura, ambiente, diritti civili) e che si dovrebbe presumere siano quelle dove più si giustifichi l'ingresso della finanza d'impatto, seguono col 48%. Housing ed energia interessano il 45% degli operatori. Da notare che in questo caso arriva solo al 25% l'interesse per la microfinanza, mentre è alto (al 43%) quello per gli altri servizi finanziari.


Emergono con chiarezza alcuni paradossi, che analizzeremo nella prossima puntata.



di Alessandro Messina
Articolo pubblicato per Sbilanciamoci.info
7 febbraio 2014








[1] JP Morgan, Impact Investments. An emerging asset class, 2010. In http://www.rockefellerfoundation.org.

[2]Per una rassegna degli operatori e dei numeri dell'industria dei fondi di investimento “etici” o “socialmente responsabili”, si vedano Eurosif, European SRI Study, 2012 e Vigeo, Green Social and Ethical Funds in Europe, 2013.


[3] JP Morgan, Perspectives on Progress. The Impact Investor Survey, 2013. In www.jpmorgan.com.