Da
che mondo e mondo, i soldi sono nelle mani di chi cerca di usarli per fare più
soldi (si chiama “finanza”). E, da che mondo e mondo, chi prova ad opporsi a
questa tendenza passa per eretico, se la base del potere sta nella religione, o
per rivoluzionario, se la legittimazione dello status quo deriva dall’ordinamento politico. Oggi, che a dettare le
regole è l’ideologia del mercato, l’eresia non fa più paura ed essere
rivoluzionari è decisamente poco trendy, almeno nell’unico paese d’Europa -
l’Italia - dove non esiste più neanche un partito di orientamento socialista.
Così è arrivato il tempo degli innovatori sociali.
Che
un tempo avremmo chiamato progressisti. Con il rischio però di urtare la
sensibilità dei tanti conservatori che oggi cavalcano con soddisfazione
l’ondata di successo della vulgata neoliberista. Dunque, per rispetto ai loro
delicati - seppur sinceramente animal
- spirits, meglio ripiegare
sull’innovazione sociale.
Un
termine che sta a significare processi di produzione di beni e servizi che non
sono necessariamente né pubblici né privati, né profit né nonprofit. Sono
ibridazioni, contaminazioni, forme nuove di interazione tra settori,
istituzioni, attori economici e sociali che portano dei benefici a società e
ambiente. Fumoso? Un po’. Ma c’è buona fede in chi approccia la materia a
partire da una prospettiva micro,
ossia a partire da regole di comportamento di particolari imprese e
organizzazioni o dall’architettura di specifiche iniziative. Nelle quali a
volte accade - è vero - che sistemi anche complessi di incentivi niente affatto
scontati producano questo virtuoso corto circuito.
Dunque
viva l’innovazione sociale, se con essa intendiamo la possibilità di aumentare
il benessere di qualche categoria di persona, di piccole comunità locali, dei
lavoratori di un’impresa, che sia la Olivetti dei tempi d'oro o la piccola
cooperativa agricola di qualche sperduta contea americana[1].
Più
difficile è concepire il tutto in una chiave macro. Come, in modo sorprendentemente superficiale - sarà questa,
per contrappasso, l’insostenibile leggerezza dell’austerity? - sta facendo la Commissione europea negli ultimi anni.
Con uno schema che ricalca molto quanto accadde a metà anni ’90 a proposito del
“terzo settore” (il Libro Bianco del 1992, le azioni pilota sul “Terzo
sistema”, ecc.). La lettura dei documenti di Bruxelles infatti ci porta proprio
lì, verso quella retorica e un po' tautologica forma di analisi: nuovi bacini
occupazionali, nuove soluzioni per il problema dell’invecchiamento della
popolazione, l’inclusione dei nuovi cittadini, perfino l’equilibrio
pensionistico, dicono gli eurocrati, potrebbero trovare una soluzione grazie
all’innovazione sociale[2].
Proprio come un tempo, si diceva, l’avrebbero trovato spostando servizi e
risorse dal pubblico al nonprofit[3].
Un
processo, quest'ultimo, i cui esiti si sono rivelati però assai meno
entusiasmanti delle premesse. Dopo tanti anni di analisi e riflessioni di tipo
teorico, oggi i dati cominciano a parlare chiaro. Grazie al nuovo censimento
Istat sulle istituzioni senza scopo di lucro, sappiamo ad esempio che per ogni
posto di lavoro guadagnato nel terzo settore
tra 2000 e 2010, decennio in cui l’occupazione nonprofit è cresciuta di
oltre il 39%, se ne sono persi quasi due (1,92) nel pubblico impiego. Per di
più, l’occupazione nonprofit è precaria per oltre il 30% dei lavoratori (contro
il 4% della pubblica amministrazione)[4].
Forse è stata innovazione, ma sembra difficile dire che la collettività, nel
suo complesso, ne abbia tratto giovamento. Errare è umano, si dirà, oltre che
essere “politico”, ma perseverare - dice il proverbio - è diabolico. Ed ecco
qui, guarda caso, entrare in gioco la finanza.
Sì
perché il movimento che c’è intorno all’innovazione sociale - che, va ribadito,
è popolato per gran parte da autentiche motivazioni e passioni, da talenti e da
molti progetti di eccellenza - si sta pericolosamente incrociando con un’altra
corrente, dai connotati ben più minacciosi. Si tratta della cosiddetta “finanza
d’impatto”, o impact finance.
La
definizione di impact investing -
altra ricorrente ed equivalente terminologia - è semplice semplice: “gli investimenti di impatto sono indirizzati
a imprese, organizzazioni o fondi con l’intenzione di generare risultati
misurabili, di tipo sociale e ambientale, insieme ad un ritorno di tipo
finanziario” (dalla definizione presente sul sito del Global Impact Investing Network, thegiin.org, nostra traduzione).
Tanto semplice da risultare banale. Se non fosse che nel contesto attuale dei
mercati finanziari perfino questa ovvietà può risultare “innovativa”.
Pretendere di usare la finanza in modo “utile” - dunque mai sganciata dalla
sola remunerazione del capitale - non è proprio obiettivo di poco conto,
soprattutto se affrontato senza preoccuparsi delle regole (o meglio della loro
assenza) che ne determinano le scelte, e che sono alla base dello straripante
potere del finanziario sull’economico. Insomma, una piccola utopia, alla quale
come tale non si può che guardare con simpatia.
Ma
alcune recenti fatti impongono cautela: l’ingresso nel comparto di alcuni
grandi operatori finanziari; JPMorgan, leader mondiale dei servizi di alta
finanza, che dedica un report all’anno al tema; David Cameron, primo ministro
inglese, che dopo aver lanciato la sua “banca di impatto”, propone di
costituire una task force sulla finanza d’impatto all’interno del G8.
Ce
n’è abbastanza per decidere di analizzare più a fondo il fenomeno. Lo faremo
nelle prossime tre puntate di questa breve inchiesta.
di Alessandro Messina
Articolo pubblicato per Sbilanciamoci.info
4 febbraio 2014
[1]
Gli Stati Uniti rappresentano la principale frontiera per gli innovatori
sociali, ancor di più di quanto lo fossero, vent'anni fa, per il settore
nonprofit. L'amministrazione Obama ha istituito l'Ufficio per l'Innovazione
Sociale e la Partecipazione Civica, riconoscendo così che “la miglior risposta
alle nostre sfide si trova nelle comunità”
(http://www.whitehouse.gov/administration/eop/sicp). L'Università di Stanford
si è guadagnata un ruolo di primo piano nell'offerta formativa e nel dibattito
culturale globale (http://csi.gsb.stanford.edu/), superando quello che fu della Johns Hopkins University
con riferimento al nonprofit (http://ccss.jhu.edu/).
[2] European Commission, Guide to Social Innovation, february
2013. Disponibile in: http://s3platform.jrc.ec.europa.eu/documents/10157/47822/Guide%20to%20Social%20Innovation.pdf
[3] La critica va rivolta non
alle analisi (migliori) sviluppate in quegli anni, alcune delle quali ancora
molto attuali, ma a come esse vennero utilizzate in modo strumentale dalla
politica per giustificare certe scelte e le concrete policies poi realizzate. Tra
i più completi e illuminati contributi, per ricchezza di analisi e proposte,
cui si fa riferimento, cfr. Lunaria, Lavori
scelti. Come creare occupazione nel terzo settore, Edizioni Gruppo Abele,
1997.
[4]
Andrea Mancini (ISTAT), Principali
risultati del Censimento dell'Industria e dei Servizi 2011, luglio 2013.