Terzo, quarto, quinto settore

La prima reazione è di stupore. Ci sono persone disposte a scrivere lettere d’amore per avere in prestito una tosaerba. Alcuni addirittura si offrono di raccontare barzellette – esclusivamente in lingua partenopea, precisano – chiedendo in cambio che gli siano rammendati i pantaloni.

E’ la rete di economia locale (REL) di Reggio Emilia, uno dei tanti esempi di organizzazione dal basso che si stanno sviluppando in tutto il paese e che costituiscono modi concreti per reagire all’inefficienza del mercato, trovando il modo di soddisfare i propri bisogni. In un certo senso è la scoperta dell’acqua calda: mi serve qualcosa, trovo chi è in grado di darmelo ed in cambio mi preparo ad offrire ciò che posso, il tutto mediato da qualcuno che favorisce lo scambio indiretto e supplisce alla tipica funzione della moneta. Eppure stupisce. Stupisce che possa funzionare, che ci si fidi, che una simile organizzazione possa risultare credibile di fronte alla strutturata realtà del mercato.



Non è questa l’occasione per analizzare in dettaglio perché queste esperienze riescono e come funzionano (esiste ormai una discreta letteratura su banche del tempo, LETS – local exchange trade system, REL, ecc. Ottimo per farsi una prima idea il libro di Klaus Offe e Rolf G. Heinze “Economia senza mercato”, Ed. Lavoro, 1998). Ciò che sembra interessante è capire come sia possibile che esperienze di questo tipo non riescano ad illuminarci, non riescano lì dove dotti saggi e voluminosi testi universitari già falliscono.

In questi anni si parla molto di globalizzazione, crescita senza occupazione, post-fordismo, fine del lavoro, sviluppo (in)sostenibile e terzo settore. Sociologi, economisti, politologi e tuttologi di vario genere stanno facendo una fortuna raccontandoci ciò che tutti potremmo osservare con i nostri occhi, se solo li aprissimo. Il sistema economico consolidatosi in questo secolo è ormai alla deriva; l’economia reale è schiacciata dai grandi giochi finanziari; il lavoro sta sempre più allontanandosi dalla forme tipiche degli ultimi cinquanta anni, scadendo nel precariato e riproponendo le figure dei working-poor della grande depressione; la ricchezza prodotta è sempre maggiore ma sempre meno equamente distribuita; nelle economie occidentali sono in strepitosa crescita i bisogni lasciati insoddisfatti dal mercato e dallo stato; i poveri sono sempre di più, in una popolazione mondiale che, arrivata al miliardo nel corso del XIX secolo, toccherà quest’anno quota sei miliardi, sestuplicandosi dunque in poco più di cento anni.

Le soluzioni vengono cercate sempre a livello di sistema, e forse è giusto così. La storia di questo secolo è fatta da approcci macroeconomici, piani Marshall e costruzione di modelli che astrattamente dovrebbero rappresentare la realtà. In questo processo ciò che è andato assumendo un sempre maggiore ruolo è la scienza, scienza?, economica. Le si è dato sempre più peso perché sempre più peso assumevano non tanto i fini quanto i metri che questa utilizza: la moneta, il profitto, lo sviluppo e la crescita valutati, appunto, solo in termini di valori prettamente economici.

Modelli matematici astrusissimi, copiati dalle scienze naturali, come la fisica o la biologia, hanno fruttato, soprattutto a partire dagli anni ’70, premi Nobel e politiche di governo particolarmente miopi. Il punto critico di questo processo è la perdita delle vere finalità e di quello che un freudiano definirebbe il “principio di realtà”, tanto è vero che in un recente testo, pur apprezzabile per molti aspetti (Economia del no-profit, a cura di Domenico Marino e Francesco Timpano, 1998 Liocorno editori, Via Collina 48, Roma), tocca leggere che “…l’ipotesi…che l’economia sia influenzata anche da fattori umani si è lentamente fatta strada all’interno della teoria economica” (corsivo nostro).

E questo perché l’economia, che avrebbe potuto aiutare la riflessione sullo sviluppo e la ricerca del benessere della razza umana, ed in qualche sporadico caso lo ha fatto, è stata relegata al ruolo di ragioniere o avvocato del capitale, aiutandone gli spietati calcoli o giustificandone le più meschine e sciocche azioni. Quando poi, come nel momento attuale, i costi e gli effetti di certe azioni sono arrivati a punti estremi costituendo motivo di imbarazzo - meramente pragmatico ed egoistico, si badi, per paura della perdita dei propri privilegi - anche per chi li ha ignorati per anni, si prova a lavorare con la stessa meccanicità per trovare delle soluzioni.

Nascono allora le fantastiche idee sullo sviluppo del terzo settore, sul calcolo del PIL verde, sulla sussidiarietà orizzontale, sulla concertazione allargata. Si tratta, è evidente, di piccoli stratagemmi i cui effetti potranno aversi, se siamo fortunati, solo a brevissimo termine. E non possiamo più permetterci di consolarci con il motto del furbo Keynes: “nel lungo periodo saremo tutti morti”.

La questione centrale sembra quella del ruolo dell’individuo. Le soluzioni sistematiche sembrano destinate a fallire ed alla rivoluzione ormai crede solo qualche adolescente cresciuto tra i ricordi di un fratello più grande. E c'è per fortuna più di una realtà che in questa direzione, quella della riscoperta dell’individuo, mostra risultati eccezionali.

Quella citata prima, la rete di economia locale, non è ovviamente un’esperienza che nasce da sola, ma è frutto di una sedimentazione di esperimenti e riflessioni sul ruolo dell’individuo nella comunità. Tema vecchio, certo, ma mai superato.

Così come oggi torna sorprendentemente attuale un autore come Paul Goodman, anarchico eretico americano, che negli anni ‘60 era diventato, suo malgrado, il guru di una generazione. Sono molti i passi del suo pensiero - guarda caso mai sistematicizzato - che sembrano calzare a pennello alle difficoltà del nostro tempo. ”Non è ammissibile che una società determini in anticipo tutte le possibilità e le strutture. Se l’integrazione di una società diventa troppo fitta ed essa si accaparra tutto lo spazio, i materiali e i metodi disponibili, essa non è più in grado di fornire proprio quel margine d’indeterminato che rende possibile la crescita. Questo fatto è determinante nello spingere definitivamente i giovani fuori del sistema organizzato e nel rendere gli adulti dotati di capacità creativa così restii a cooperare con esso”.

E ancora: “Disintegrando le comunità e mettendo le persone isolate di fronte ai soverchianti processi della società intera, (il sistema americano) ha distrutto la misura umana e ha privato gli individui di forme di associazione gestibili che permettano la sperimentazione”.

Il ruolo dell’individuo nella comunità era uno dei perni del suo pensiero e questo si basava sull’idea che “è falso dire che nella grande città non è possibile la comunità, poiché sei milioni di individui possono essere considerati duemila comunità di tremila persone ciascuna” (tutte le citazioni sono tratte da Paul Goodman. Individuo e comunità, a cura di Pietro Adamo, 1995 Elèuthera, casella postale 17025 Milano).

Allora lo sforzo necessario è proprio quello di non cadere nei soliti stanchi processi di banalizzazione di ogni esperienza. Tutte le iniziative di reazione alla forza devastante del mercato ed al peso pachidermico dello stato sono catalogate sotto la “non definizione” di terzo settore. La terzietà di queste esperienze rispetto ai due mostri-sistemi è, o dovrebbe essere, garanzia di originalità, genuinità, equilibrio tra individuo e comunità.

Questo, che certamente è vero in fasi nascenti molto spesso non lo è per esperienze consolidate che, per autoalimentarsi, non hanno alcuna alternativa che rientrare rigorosamente tra le fila, perdendo ogni connotato di sperimentazione e tutta la forza innovativa iniziale. Difendersi da questa dinamica è difficile.

Alcune realtà trovano una soluzione in un ostinato desiderio di non crescere, autolimitandosi per evitare di rimanere ingolfati (penso alla piccola mutua autogestita MAG6 che, pur riconoscendone l’importanza, non si è sentita di partecipare al progetto di una Banca Etica di livello nazionale). Altre cercano proprio nella crescita la forza per opporsi sempre più duramente all’istituzione, accecandosi molto spesso del proprio splendore e perdendo di vista i principi originari.

Personalmente, la diretta conoscenza di un pezzo di terzo settore italiano e l’osservazione del restante, mi fa propendere più per la sindrome di Peter Pan, vedendo nella crescita incontrollata molti più rischi che benefici. Purtroppo, e qui sta la necessità di un dialogo aperto e costruttivo da tutte le parti, non è semplice trovare l’equilibrio fra sacrosante rivendicazioni di diritti e ambigue connivenze con gli altri due soggetti e quella che va cercata è una sorta di solidarietà di settore, difficile anche per chi della solidarietà vuole fare una professione.

A volte però non mancano occasioni che inducono ottimismo, come il seminario del 4 novembre scorso organizzato da Lunaria “Terzo settore, sinistre, riforme”, in cui critica e proposta si possono intrecciare costruttivamente (gli atti del seminario possono essere richiesti a Via Salaria 89, Roma, Tel. 068841880, e mail: ts.lunaria@agora.stm.it).

Il punto è che l’individuo è sempre lì e, sussidiarietà o no, onlus o no, la forza dell’autorganizzazione rimane tale. Perciò, istituzionalizzato il terzo settore, se necessario (e come potrebbe non esserlo?) ne nascerà un quarto e poi un quinto e così via. Ciò che importa è che vi siano i prodromi di una reazione di questo tipo, che le coscienze non si assopiscano, che le giovani generazioni abbiano degli spazi. Da questo punto di vista il discorso sulla scuola è cruciale. Ma questa è un’altra storia.

di Alessandro Messina
per Lo Straniero, marzo 1999