Più di 300 ricercatori, 200 rapporti di ricerca presentati, 4 giorni di full immersion sui temi dell’economia sociale, della cooperazione, della società civile. Questo è stata la terza conferenza internazionale sul terzo settore promossa dal ISTR – International Society for Third Sector Research – a Ginevra dall’8 all’11 luglio. L’ISTR è parte della Johns Hopkins University di Baltimora, università a cui va dato atto di aver saputo trovare negli ultimi anni le chiavi interpretative più adatte a portare nelle agende dei politici e degli accademici il mondo del nonprofit. Un tema che precedentemente era appannaggio dei pochi sociologi che si chiedevano cosa si nascondesse dietro il vasto fenomeno dell’associazionismo e del volontariato, è diventato successivamente un argomento più volte indicato come cruciale anche da economisti e politici, in tempi di crescita senza occupazione e di riforma dello stato sociale.
Il punto è che il terzo settore è qualcosa mai abbastanza definito e che ognuno affronta secondo un proprio singolare punto di vista. Non è un caso che durante il congresso di Ginevra ampio spazio sia stato dedicato al tema delle definizioni e delle classificazioni, nonostante la rigidità della componente statunitense che sembra essersi rilassata sulle definizioni finora adottate nell’ambito dell’unica ricerca di livello internazionale svolta proprio dalla Johns Hopkins University. Tale ricerca però, nonostante l’enorme merito di aver fornito dati inediti e criteri valutativi uniformi, sembra risentire eccessivamente della realtà americana e di un approccio tecnico-economicistico che non può essere applicato ai paesi europei, in cui un tessuto sociale completamente differente ed una relazione stato-mercato storicamente più articolata richiedono un approfondimento maggiore.
Questo è lo sforzo che sociologi del calibro di Jean-Louis Laville e Rudolph Bauer stanno cercando di compiere proponendo il concetto di “un’economia solidale” (Laville) che faccia da “intermediario, da cerniera, tra il mondo dell’economia di mercato e lo stato” (Bauer). E’ così che nasce poi il termine di “impresa sociale”, un’impresa che agevoli il passaggio dall’economia informale a quella formale di alcune componenti del sistema economico, che diventi così più trasparente e più aperto alla creazione di nuove forme di lavoro. E qui sta un po’ la differenza tra studiosi europei ed americani.
I primi ovviamente non possono fare a meno di affrontare il tema della disoccupazione e, partendo dalle analisi di Rifkin (uno statunitense), si chiedono come il terzo settore possa aiutare il sistema economico a ritrovare equilibri in grado di fornire nuovi posti di lavoro.
I secondi, apparentemente immersi in una realtà diversa – ma non bisogna dimenticare gli artifici delle statistiche e l’impatto dei cosiddetti Mac Jobs –, sembrano invece preoccuparsi soprattutto di temi manageriali, secondo un approccio microeconomico che dà per scontato che il resto venga da sé. Tale differenza nelle motivazioni ad affrontare il problema della disoccupazione è risultata evidente quando, nonostante il programma di lavoro dedicasse uno spazio limitato al rapporto tra terzo settore e crescita occupazionale, gli incontri svoltisi in questo ambito sono risultati di gran lunga i più seguiti e soprattutto quelli in cui la discussione si è fatta più stimolante ed accesa.
La fine del lavoro subordinato come tipologia dominante delle forme di occupazione, la necessità di lavori socialmente utili – dizione che a noi italiani ricorda esperienze non proprio esaltanti ma che in Francia e Finlandia corrisponde a forme concrete di sperimentazione sociale ed economica -, la valorizzazione del capitale sociale come reazione alla sempre maggiore aggressività del capitale finanziario sono i punti principali toccati dal dibattito.
A volte l’ottimismo di chi vede nel terzo settore l’ambito in cui la società può scoprire nuovi equilibri economici e nuove forme di interazione sociale ha lasciato spazio al tema della qualità del lavoro: soprattutto in Germania, Spagna, Italia e Inghilterra si pone l’accento sul rischio legato alla precarietà dei nuovi lavori e sul fatto che molto spesso le remunerazioni al di sotto della media di mercato che caratterizzano le professioni del terzo settore non sempre sono spiegabili con la motivazione ed i valori del singolo, e comunque ci si chiede se questo debba sempre essere accettato così acriticamente.
Interessante, infine, che mentre in Europa si cercano nel terzo settore le risposte ad uno sviluppo economico le cui modalità sono ormai in crisi, il dibattito tra i ricercatori dei paesi africani, asiatici e sudamericani si sofferma proprio sulle possibilità di sviluppo che il terzo settore può offrire ai propri paesi (con le esperienze che vanno dal microcredito alla cooperazione internazionale).
di Alessandro Messina
per Lavori in Corso, agosto/settembre 1998